Jacopo, fratello minore di Alessandro, rilegge la spersonalizzazione dell’individuo nell’opera di Crimp, uno dei più importanti e radicali autori contemporanei
Una spazio dominato dal bianco che abbacina lo sguardo, contornato da grandi cornici luminose rettangolari, una dentro l’altra, che richiamano la suddivisione della tela in reticolati dei quadri di Piet Mondrian. E restringendosi ad imbuto, allunga la prospettiva che si perde all’infinito. In una scena di algida raffinatezza (di Gregorio Zurla), arredata da una sola poltrona e da un tavolo, i nervosismi e le tensioni sono già lì da toccare. “Com’è andata la giornata?”, è la prima domanda di lui a lei, così, tanto per un saluto. “Ma perché sono le speranze a renderci così tristi”, è la prima risposta sconsolata di lei a lui. Anche se quello che i due si dicono può apparire di ordinaria amministrazione sono i toni delle loro voci, le pause, le domande che si pongono reciprocamente a dare un primo segnale che qualcosa nel loro rapporto si sta avviando verso un’incrinatura che sarà più evidente nei quadri successivi.
Nessuno dei due sembra capace di ascoltare. Ognuno segue il proprio filo di pensiero. Chris (Christian La Rosa), impiegato in una grande società informatica, ha il terrore di perdere il lavoro perché ha appena saputo che la sua azienda si appresta ad una “riorganizzazione” del personale. Lei, Clair (Lucrezia Guidone), una traduttrice di romanzi (ma ambisce a diventare una scrittrice) racconta di avere avuto nel pomeriggio uno strano incontro alla stazione di Waterloo con uno scrittore, un certo Mohamed, che le ha confidato di essere stato in carcere, di aver subito torture (non si sa dove né per quale reato) e prima di salutarla le aveva consegnato il diario nuovo destinato alla figlia, dalla quale è stato crudelmente separato da una donna con un cappotto beige su un abito da infermiera che trascina la bambina in jeans rosa in un taxi, forse sua zia. Ma non basta. Al quadretto familiare, già sufficientemente oscuro e inquietante, si aggiunge un terzo personaggio: la vicina di casa, Jenny (Olga Rossi), piombata nella abitazione della coppia a lamentarsi per l’eccesso di schiamazzi che i figli dei due producono nel giardino, anche lei fa uno strano racconto sul marito che combatte in un non precisato fronte all’estero .
Scritta (nel 2008) da uno dei maggiori drammaturghi della scena contemporanea britannica e internazionale Martin Crimp, The City è stata messa in scena (per la prima volta) nella traduzione di Alessandra Serra (già traduttrice del teatro di Harold Pinter) al Teatro Elfo Puccini di Milano (fino allo scorso 7 aprile) con la regia di Jacopo Gassmann, regista ormai affermato (figlio di Vittorio Gassmann e Diletta D’Andrea, classe 1980), profondo conoscitore della drammaturgia british (laurea in regia cinematografica alla New York University e, Master of the Arts in regia teatrale alla Royal Academy of dramatic arts di Londra). “L’ho trovato particolarmente intrigante – ha precisato Jacopo Gassman -. Influenzato da Samuel Beckett, Harold Pinter e David Mamet, il teatro di Crimp è caratterizzato da un’inquietudine e una crudeltà di fondo, spesso stemperate da una vena grottesca e surreale”.
Quella che era nata come una semplice tensione domestica di una coppia apparentemente felice della “classe media”, man mano che le sequenze avanzano, si trasforma inesorabilmente in qualcosa di più oscuro e inquietante in cui il pubblico si ritrova immerso, in un labirinto di significati e interpretazioni. La regia attenta di Jacopo Gassman infonde inquietudine in piccoli tocchi, flirtando con il realismo senza mai arrendersi, lasciando lo spettatore solo di fronte alla propria perplessità, perso tra ciò che è e ciò che non è. La vicina di casa indossa un vestito da infermiera sotto un cappotto beige. Come la donna del “rapimento” alla stazione di Waterloo. Analoghi abiti sono indossati da una ragazzina (Lea Lucioli) che in un certo momento appare in scena rivelandosi figlia di Chris e Clair. Che rapporto c’è tra il diario della bambina smarrita all’inizio dello spettacolo e il diario di Clair, i cui passaggi verranno letti da Chris alla fine della pièce? Elemento determinante a tale scopo è il disegno delle luci di Gianni Staropoli che invadono lo spazio lateralmente creando anche significativi effetti ombra. C’è ma non c’è. Ogni i minima variazione della luce arriva di soppiatto e prima ancora che ce ne rendiamo conto ha trasformato il volto degli attori.
Mentre la stanza cambia spesso colore (virando dal verde chirurgico in toni cupi o accessi, dal blu al nero, all’arancio, al giallo o in sfumature rosa-casa di bambola, a dire il vero inquietante, tutto a seconda di ciò che accade sul palco. Importante anche il commento sonoro elaborato da Zeno Gabaglio che attinge anche a composizioni elettroniche di Alva Noto e Ryuichi Sakamoto. La bravura degli attori, ma mai fuori dalle righe, acquista così una forza piuttosto irresistibile. Quadro dopo quadro la distanza fra Chrise Clair aumenta. I corpi rimangono come imprigionati, isolati lungo traiettorie che procedono a singhiozzo attraverso tentativi di contatto destinato a fallire in una incapacità di vicinanza e di intimità. La parola, che in principio sembra creare un ponte, inciampa poi in silenzi, farse non finite. Scopriremo che Christopher ha trovato lavoro: è stato assunto come salumiere in un centro commerciale e lo vediamo a un certo punto con cappello e berretto in testa, che fa il “contento”, mascherando rivolte e umiliazioni. Clair è invece andata a un congresso a Lisbona insieme a Mohamed, lo scrittore incontrato in stazione e che sta traducendo.
La confusione raggiunge il suo massimo quando Clair tira fuori il suo diario. Frustrata dal fatto di essere solo una traduttrice delle opere degli altri, scopriamo che voleva scrivere un romanzo, ma alla fine non ci riesce. E allora, come in un rewind, tutto il testo può essere letto come una serie di tentativi da parte della protagonista, Clair, di scrivere delle bozze. Il titolo, The City, come una grande metafora della città interiore della protagonista alla prese con il suo romanzo mancato? Crimp usa una ragnatela di sospetti che restano sospesi, catturando la nostra attenzione, invischiandoci in essa. Una messa in scena di formidabile ambiguità. Tanti i percorsi possibili da esplorare vedendo questa commedia che appare come un labirinto senza fine che finisce per confondere anche i personaggi , e noi con loro in queste grandi città globali, colme di grandi solitudini, e che sembrano costruite per chiuderci fuori da noi stessi, disumanizzandoci. Serpeggia così una risonanza, un ronzio della mente in cui si forma allora la consapevolezza che quel microcosmo familiare descritto da Crimp, sia il “neurone specchio” delle nostre solitudini “addomesticate” in convivenze senza dialogo. Imprigionati in narcisismi non comunicanti. In bilico fra realtà e finzioni.
Trasformati in algoritmi economici da un sistema globale che ci sfugge. Personaggi di una storia che non riusciamo a scrivere, come Clair, in questa società in perenne caos, sempre più incerta, sempre più spaventosa, in cui all’improvviso può irrompere la guerra che credevamo lontana e che nessuno riesce a fermare o essere licenziati, di punto in bianco. Rendiamo grazie al teatro di denuncia di Martin Crimp e a Jacopo Gassman (regista che affronta sempre testi che richiedono allo spettatore di scavare oltre la superficie), per averlo portato coraggiosamente in scena, con regia rigorosa e sicura, dirigendo attori capaci di portarci dentro il testo, con loro, invitandoci a guardare in faccia il vuoto e la nostra disperante umanità in questa sempre più inquietante società postmoderna.