Il caso del giocatore dell’Inter e Juan Jesus tiene banco. Ora tocca alla Procura Federale fare chiarezza
La fase finale di Inter-Napoli ha regalato un episodio che, ormai, è sulla bocca di tutti. Sentite le parti, la Procura Federale si esprimerà settimana prossima per comminare (probabilmente) una squalifica dura a Francesco Acerbi, reo di aver rivolto delle frasi razziste al Juan Jesus. Se ciò che è stato detto in prima istanza dal difensore brasiliano troverà proseliti, allora il nerazzurro avrà parecchio tempo da meditare fuori dal campo. Si ventila da dieci giornate di squalifica, se non vi saranno risvolti più inquietanti.
Seppur il Codice di Giustizia sportiva sulle sanzioni abbia maglie molto larghe che lasciano solitamente ampio margine a Procura e giudici, sul razzismo la norma è particolarmente chiara. Si legge all’articolo 28 comma 2: “Il calciatore che commette una violazione per comportamento discriminatorio è punito con la squalifica per almeno 10 giornate di gara o, nei casi più gravi, con una squalifica a tempo determinato”. Almeno dieci giornate. Per ribadire che su questo tema occorre massima serietà e severità.
Le versioni dei due calciatori sono opposte, e non è ancora stata individuata una prova video chiara che possa definire quanto accaduto. Come scrive La Gazzetta dello Sport, l’arbitro La Penna aveva ascoltato lo sfogo del brasiliano immediatamente successivo all’accaduto, e infatti nel referto ha inserito il termine “razzista”. A livello pratico mancano delle prove inequivocabili che possano togliere ogni dubbio. Per questo il Giudice Sportivo non definirà la sanzione per il giocatore dell’Inter ma chiederà un supplemento di indagine alla Procura Federale.
Lo standard probatorio necessario per ritenere un soggetto colpevole di una violazione disciplinare sportiva è diverso da quello richiesto dall’ordinamento statale nell’ambito di un giudizio penale. In soldoni il Collegio di Garanzia dello Sport del CONI è intervenuto sul punto più volte, stabilendo che “è principio consolidato della giustizia sportiva che lo standard probatorio richiesto non si spinge fino alla certezza assoluta della commissione dell’illecito – certezza, che peraltro, nella maggior parte dei casi sarebbe una mera astrazione – né al superamento del ragionevole dubbio, come nel diritto penale. La sua definizione prevede che il grado di prova richiesto, per poter ritenere sussistente una violazione, deve essere comunque superiore alla semplice valutazione della probabilità, ma inferiore all’esclusione di ogni ragionevole dubbio. A tale principio vigente nell’ordinamento deve assegnarsi una portata generale; sicché deve ritenersi adeguato un grado inferiore di certezza, ottenuta sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, in modo tale da acquisire un ragionevole affidamento in ordine alla commissione dell’illecito“. (Cfr. Collegio di Garanzia dello Sport del CONI, Sez. Un., Decisione n. 6/2016). A differenza del giudizio penale, invece, che il giudice pronuncia sentenza di condanna quando l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio.