Il Kashmir ancora al centro. India e Pakistan paventano lo scontro armato senza volerlo rilanciare, anche se la regione contesa dalle due nazioni subisce i contraccolpi della cancellazione dell’autonomia amministrativa decisa dal governo centrale di Delhi e una conseguente discriminazione nell’occupazione quotidiana schiacciata ed emarginata dall’affarismo turistico promosso e protetto dalla politica del BJP
Mentre sotterra il papa della pace, il mondo della guerra è già pronto a rinfocolare incendi. In questi giorni India e Pakistan rilanciano antichi contrasti capaci di rinfiammarsi sull’onda del fondamentalismo istituzionale. I due nient’affatto benevoli vicini, da decenni un contro l’altro armati come prolungamento orientale della trascorsa Guerra Fredda, restano con arsenali ricolmi di testate nucleari, centosettanta a testa sostenevano statistiche certamente da riaggiornare, in peggio. In base a passati conflitti, l’ultimo lontano più di mezzo secolo (1971), si dice che anche nei momenti di crisi come l’attuale i due vicini mimino lo scontro armato senza volerlo rilanciare. Sarà. E’ anche vero che le reciproche guide politiche – l’induista Narendra Modi a Delhi, l’islamico Shehbaz Sharif a Islamabad – all’apparenza compassati e malleabili con vari partner internazionali per commercio e cooperazione, inseguono ben altri disegni interni e regionali. Che in questa fase hanno conosciuto in alcuni territori rissosamente condivisi, qual è il Kashmir, il perfetto terreno dell’urto indiretto. I sanguinosi avvenimenti della scorsa settimana ne sono una riprova. L’assalto stragista su visitatori inermi vuol infliggere alla piattaforma turistica indiana un colpo che può fungere da freno, dopo la ripresa del settore uscito dagli stop forzati della pandemia. Nel Kashmir, cosiddetto svizzero per vallate lussureggianti e vette imbiancate, non ci sono soltanto bellezze naturali. C’è una cospicua fetta di abitanti islamici che subisce i contraccolpi della cancellazione dell’autonomia amministrativa decisa dal governo centrale di Delhi e una conseguente discriminazione nell’occupazione quotidiana schiacciata ed emarginata dall’affarismo turistico promosso e protetto dalla politica del Bharatiya Janata Party. Esaltatore dell’India induista contrapposta ai musulmani interni e d’oltre confine.

Eccolo, dunque, il nocciolo del problema in un contesto che non è più la conservazione dell’identità indipendente che i padri delle rispettive patrie, il pakistano Jinnah e l’indiano Nehru, andavano predicando nell’immediato Secondo Dopoguerra. E’ qualcosa di peggiore, ricomparso nell’epoca del fallimento del laicismo politico e nel recupero d’un confessionalismo introdotto in maniera più o meno smaccata nelle Istituzioni. Il Pakistan l’aveva fatto nel decennio di dittatura del generale Muhammad Zia-ul-Haq (1978-1988), favorendo l’islam più fanatico di talune madrase deobandi, nella provincia Khyber Pakhtunkhawa resta famosa la Darul Uloom Haqqania, tuttora attivissima, nella quale si sono formati capi talebani come il mullah Omar e l’attuale clan Haqqani denominato appunto da tale scuola. L’India di Narendra Modi lo sta facendo da circa un ventennio agganciandosi all’hindutva teorizzata agli inizi del Novecento dall’ideologo razzista Vinayak Damodar Savarkar. Due orientamenti che strumentalizzano le fedi islamica e induista conducendole a interpretazioni fanatiche ed esclusiviste. Il richiamo citato agli arsenali bellici dei due Stati, che nascevano quando nel mondo bipolare della “pace armata” ciascuno cercava, e facilmente trovava, alleanze per il tornaconto di tutti aveva dato l’assenso e la fornitura atomica a Delhi da parte sovietica, a Islamabad da parte statunitense. Purtroppo quell’arsenale è rimasto e si è ampliato, mentre i due Paesi asiatici hanno conosciuto esplosioni demografiche e mercantili che li rendono protagonisti non solo in ambito regionale. Al di là di minacce-contro lanciate da premier megalomani (Modi) o politicamente instabili (Shahbaz Sharif), i due leader stanno usando a scopo interno i contrasti attuali. Cosicché Delhi ricorre al ricatto di bloccare il flusso delle acque dell’Indo per incrinare la produzione agricola pakistana assolutamente dipendente da quell’irrigazione; i militari di Islamabad, non da oggi i veri padroni di chi siede al governo, mirano a rafforzare la propria influenza utilizzando l’armatismo jihadista come quello dei probabili esecutori dell’attentato a Pahalgam, i miliziani di Lashkar-e-Tayyiba. Autonomi ma fino a un certo punto, perché forniture e coperture dell’Intelligence di Stato fanno sempre comodo, utili quando assaltano obiettivi indiani oppure destabilizzano il quadro politico interno, si chiami Sharif, Bhutto o Khan.
articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it