Aldo dice: ventisei per uno, settant’anni di Resistenza in sei libri (cinque commenti, una critica)

Siamo nati discutendo della Resistenza, moriremo resistendo. Con l’arma della critica, ricordando la critica delle armi, non mitizzando nulla, sostenendo la forza delle idee e la dirompenza della memoria. Per rinnovare lo studio della Storia che parla attraverso i fatti, oltre il racconto e l’interpretazione dei vincitori. Oltre l’astio dei vinti sostenuto dalla manipolazione revisionista che inventa circostanze inesistenti per giustificare l’orrore dei propri errori. In questa rievocazione ci facciamo condurre da Maestri della penna, poeti della narrazione resistenziale, gente nata per l’arte della scrittura che aveva appreso la lezione di giganti letterari d’Oltreoceano come John Steinbeck. Un tuffo nel recente passato, bisognoso di nuovi stimoli per frenare rinnovati crimini del nazifascismo, di chi calpesta la Storia e resta sordo ai suoi insegnamenti. 

APPUNTI PARTIGIANI, di BEPPE FENOGLIO

Parlare di retorica Resistenziale vuol dire disconoscere l’opera del più grande autore di romanzi partigiani: Beppe Fenoglio. Scrisse di lui Italo Calvino, che insieme a Elio Vittorini ne sostenne la prima pubblicazione nella collana “I Gettoni” “Fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato quando nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio. Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va da Il sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata“. Fenoglio è un ciclopico “minore” della letteratura contemporanea, troppo spesso sminuito nel suo talento di prosatore da chi lo accusava di aver scritto sempre lo stesso romanzo. In effetti il tema della guerra partigiana – che segnò a fondo la sua giovinezza e quella di tanti che come lui regalarono i migliori anni alla costruzione della rinascita d’Italia – si sussegue nelle sue opere rendendole un grande variegato testo. Ma questo da fattore limitante può trasformarsi in pregio. Specie se consideriamo il valore non solo di una testimonianza realistica dell’evento storico, spogliato da qualsiasi funzione celebrativa, ma del lavoro stilistico dello scrittore. Che da giovane aveva iniziato un personale studio della letteratura anglosassone affascinato dal rigore etico e forse anche glottologico di quella lingua. Aveva introiettato la lezione americana proposta da Pavese e Vittorini tramite le traduzioni dei romanzi di Hemingway e Steinbeck che esaltavano un linguaggio essenziale e descrittivo. Poi ci mise del suo. Il giovane Beppe scrive d’acchito, senza fronzoli, usa gli aggettivi giusti che riescono a raccontare un mondo con pochi o nessun avverbio, spesso getta via anche gli articoli. Le frasi dei suoi romanzi sono dirette come le schioppettate dei patrioti, l’esatto contrario di certi contorsionismi linguistici derivati dalla letteratura ottocentesca densa di orpelli. Una prosa che mostra un talento assoluto nella scrittura, mediato dalla sensibilità d’artista e impregnato della natura verace di langarolo. L’arte del narrare in Fenoglio è asciutta come la sua figura, a volte spigolosa com’è ossuto il suo corpo, ma precisa, definita, ricca di significati e risvolti interpretativi.

Ultimo nella pubblicazione, Einaudi l’ha stampato addirittura nel 1994, gli Appunti partigiani sono il primo testo del ciclo resistenziale dell’autore. La prova generale di quel capolavoro narrativo e linguistico che è Il partigiano Johnny (pubblicato postumo nel 1968) e dell’altro mirabile romanzo della lotta antifascista nelle Langhe I ventitre giorni della città di Alba dato alle stampe nel 1952, con l’aggiunta di Una questione privata, il cui titolo già rivela gli intrecci personali in un fatto storico collettivo quale fu la lotta di Liberazione.  Gli Appunti videro luce per il caso fortuito che portò gli eredi a non dismettere gli arredi della macelleria di famiglia dov’erano riposti quattro taccuini con tanto di frontespizio “Macelleria Fenoglio Amilcare, piazza Rossetti, Alba” su cui il ventiquattrenne Beppe, a guerra appena conclusa, vergò di suo pugno il testo. I taccuini, passati alla famiglia di Giancarlo Molino, sono stati esaminati e preparati alla pubblicazione da uno studioso dell’opera di Fenoglio, Lorenzo Mondo, che già aveva fatto conoscere il romanzo più celebre dello scrittore di Alba. Son tutti divisi a colonne con le diciture: data, carne, prezzo, importo. Sul primo taccuino Beppe scrisse la dedica: “A tutti i caduti partigiani d’Italia” poi corretta in “A tutti i partigiani d’Italia, morti e vivi”. E’ l’unica concessione retorica, se vogliamo ritenerla tale, e non un commosso ricordo a chi ha donato gioventù e vita per la libertà del Paese. Il resto è realtà, cruda e tenera: fame, freddo, fughe, imboscate, paure, meschinità del quotidiano, infamie delle spie fasciste e anche di alcuni partigiani. E poi morte e dolore, e al tempo stesso ironia e amore. Sacro quello per Anna Maria, profano e sensuale, nonostante i luoghi dove viene consumato, l’altro per la staffetta Claudia. Qui di seguito un fantastico flash per ogni capitolo. Buona lettura.

Tòrnaci. Se te la senti, tòrnaci. Ma sappi che ogni volta passeranno con camion e mitraglie e cani per quelle colline dove tu sarai, io mi sentirò morire” (Alla macchia).

“Luce acerba, saran le sei e mezzo. Ma va a essere una bella giornata, e le belle giornate hanno un senso anche per noi partigiani” (In banda).

Porcaccioni e vandali (il cesso ostruito da interiora di gallina e coniglio, sedie azzoppate, letti sfondati)” (Cascina della Langa).

Si volta e vede “il più magnifico paio di gambe mai profilatosi ai miei attenti occhi” (Anna Maria).

Il maestro elementare “bastardo e traditore che metteva la sua istruzione a scrivere belle lettere agli assassini della San Marco”. “La gente grida col collo gonfio: – Sì, che è una spia, Cristo che lo è!” Per lui è la fine: nessuna pietà” (La giornata delle esecuzioni).

“Nei giorni seguenti parte una caccia all’uomo “quei culattini dei fascisti, spie dei tedeschi, gli hanno detto che c’è il Comando e il grosso della nostra divisione” (Il rastrellamento). 

“Interrogato dal Comandante Cosmo Blister si difende dicendo che i rapinati son fascisti. Cosmo gli grida che se quella gente è fascista lui è il duce e gli sferra un pugno in bocca” (La punizione di Blister).

“Claudia siede alla mia destra. E si cimenta per tutta la cena, facendosi palpare le gambe perché sentissi la seta delle calze, … puntandomi l’indice nel profondo delle coscie”  (La staffetta Claudia).

Di Enrico Campofreda

Giornalista. Ha scritto per Paese Sera, Il Messaggero, Corriere della Sera, Il Giornale, La Gazzetta dello Sport, Il Corriere dello Sport, Il Manifesto, Terra. Attualmente scrive di politica mediorientale per il mensile Confronti, per alcuni quotidiani online e sul blog http://enricocampofreda.blogspot.it/ Publicazioni: • L’urlo e il sorriso, 2007 • Hépou moi, 2010 • Diario di una primavera incompiuta, 2012 • Afghanistan fuori dall’Afghanistan, 2013 • Leggeri e pungenti, 2017 • Bitume, 2020 • Corazón andino, 2020 • Il ragazzo dai sali d’argento, 2021 • Pane, olio, vino e sale, 2022

1 commento su “Verso il 25 aprile, sei letture”
  1. […] Eccola la Resistenza che meno piaceva a taluni resistenti. Umanissima, senza retorica, con tanti limiti e contraddizioni, fatta di momenti oscuri, antieroici, addirittura meschini. Perché oscuro e infelice era anche qualche patriota. Beppe Fenoglio scrittore non lo nasconde, non è nella sua indole di rude langarolo. Dice quel che pensa, senza peli sulla lingua, evitando autocensure letterarie. Può permetterselo, è  stato partigiano, di quelli che non dovevano fare i conti con l’apparato ideologico e politico dei partiti. E’ rimasto un intellettuale libero, paladino della verità, forte d’una scrittura eccezionale: precisa e bruciante. Presenta combattenti diversi dal politicamente corretto, mostra uomini pieni di tentazioni. Già nell’esordio del primo capitolo va in scena l’anomalìa. A chi sarebbe mai venuto in mente di celebrare la fama dei patrioti che sfilano nella città appena presa con un paragone sportivo? “Sfilano i badogliani con sulle spalle il fazzoletto azzurro e i garibaldini col fazzoletto rosso, e tutti, o quasi, portavano ricamato sul fazzoletto il nome di battaglia. La gente li leggeva come si leggono i numeri sulla schiena dei corridori ciclisti; nomi romantici e formidabili…”. […]

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