Una scena di "Les jours de mon abandon". Credits: Masiar-Pasquali

La regista e interprete Saitta ha portato in prima nazionale al Piccolo Teatro Studio di Milano “Les jours de mon abandon”, ispirato al celebre romanzo della Ferrante “I giorni dell’abbandono”

C’è un tradimento forse più devastante di quello fatto dalla persona che si ama. E’ quando si tradisce se stesse, i propri sogni, desideri, bisogni e, nell’accondiscendere alle richieste dell’altro, si finisce  per assumere ruoli predefiniti che imprigionano la libera espressione di sé. E c’è allora un abbandono che lungi dall’essere un momento negativo, diventa un atto liberatorio, quello di una donna che decide di tornare all’idea di sé, al progetto di sé, che c’era e non è stato realizzato. Certo, è un percorso che può essere doloroso all’inizio e, tuttavia, in quel ritrovarsi o cominciare a farlo, ricontattando parti profonde e vive dell’Io che erano stata zittite e neglette, può essere il segreto per una vita più vera e appagante. E’ questo l’abbandono di cui siamo testimoni  in Les jours de mon abandon che Gaia Saitta, attrice e regista, ha portato in scena in prima nazionale al Teatro Studio Melato de Il Piccolo di Milano (anche coproduttore insieme al CSS Teatro stabile di innovazione del FVG), ispirato a I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante (pubblicato nel 2002.) Il titolo in francese, con quell’aggettivo possessivo “mon” ne rende chiaramente il senso.

“La prima volta che ho letto il romanzo di Elena  Ferrante, mi ha lasciato senza fiato. Non ho avuto scelta, ho sentito il bisogno  raccontare questa storia: di una donna che sapeva vincere la rabbia e il dolore e rinascere. Questo è ciò che volevo trasmettere”, racconta Gaia Saitta, nata nel 1978 a Macerata formatasi  presso l’Accademia di Arte drammatica Silvio d’Amico di Roma, da anni  vive e lavora Bruxelles,  cofondatrice del collettivo IfHuman, attualmente è artista associata al Théâtre National Wallonie di Bruxelles.

Una scena di “Les jours de mon abandon”. Credits: Masiar-Pasquali

L’attrice in gonna longuette, blusa e décolleté con tacco è già in scena all’arrivo del pubblico. Invita alcuni spettatori a sedersi sulle sedie o le poltrone che si trovano nella casa di Olga con le quali condividerà gesti e confidenze bevendo un caffè, fumando una sigaretta. Anche il vicino di casa, il musicista innamorato di Olga, sarà interpretato da uno spettatore, invitato dalla protagonista, in un breve dialogo (nel giorno in cui abbiamo assistito allo spettacolo si è proposta una donna). I giorni dell’abbandono Olga li vive in diretta, insieme al pubblico. E’ a loro che guarda, che parla, che chiede di essere testimoni e condividere la sua storia. All’improvviso, dopo quindi anni di matrimonio, Philippe l’ha abbandonata per una ragazza molto più giovane. Una storia vecchia come il mondo, una storia comune a tantissime donne.

Olga parla in italiano, la sua lingua natale, ma quando si rivolge ai bambini e al cane lo fa nella loro lingua, il francese. Dalla  Napoli del romanzo ci si sposta nell’edizione teatrale di Gaia Saitta, non più a Torino ma Bruxelles, dove Olga si è trasferita per seguire il marito ingegnere, Philippe (Mario nel romanzo della Ferrante), rinunciando alla propria realizzazione, al lavoro, alle aspirazioni giovanili. Imprigionata nel ruolo di moglie e madre apparentemente felice. Una scelta drammaturgica per rendere ancora più drammatica la condizione d’isolamento provata dalla donna lontana dalla città di origine, ma esiste anche  una risonanza con il dato biografico di Gaia  Saitta, anche lei ha lasciato l’Italia e vive e lavora a Bruxelles.

Una scena di “Les jours de mon abandon”. Credits: Masiar-Pasquali

La casa concepita dalla scenografa Paola Villani è solo una struttura metallica modulato da intelaiature di ferro a rappresentare porte, pareti e stanze di una grande casa disordinata. Una casa che si gretola come sopravvissuta a un bombardamento. Anche la pavimentazione è precaria e sdrucciolevole. Più che uno spazio realistico è spazio simbolico in cui la protagonista è prigioniera e non si riconosce più in nessun angolo. Disposti per il lungo e il largo dello spazio un divano, un tavolo con sedie, un frigorifero, un lavello di cucina, il bagno, la camera con il letto matrimoniale, tre televisori dai quali sono trasmesse varie immagini degli  anni ’90. In questa casa ci sono solo Olga con i suoi figli (Jayson Batut, Mathilde Karam)  e il cane Vitesse che ogni tanto si concede anche una fuga tra le prime file di spettatori.  

Dai primi pianti, interrotti brevemente dalla speranza di ripensamento da parte dell’uomo, fino all’incredulità. Al dolore, rabbia e senso di vuoto, del “vuoto di senso”. È la disperazione senza dignità. Olga- Gaia Saitta se ne sta seduta lì, davanti a una pentola di spaghetti intatta, come una sposa abbandonata all’altare. Vaga come un’anima persa. Si aggira in infiniti cambi di direzione, sommersa dai suoi pensieri ossessivi, anche il più semplice gesto può incepparsi e trovarsi in uno stallo desolante. Abbandonata, stordita, sola, riesce a malapena a sopportare i suoi figli, i loro giochi, i loro lamenti, i loro bisogni quotidiani. Perdendo Philippe, l’uomo attorno al quale aveva costruito il suo universo, rinunciando ai suoi sogni, sembra essersi svuotata della sua sostanza. E lo fa dapprima con lunghe pause di silenzio di una forza feroce. O quando sale su una scala altissima e si isola fumando una sigaretta. Anche una madre può non sopportare più la visione dei suoi bambini e scacciarli.  Anche i bambini sanno essere anche cattivi e dirle anche che tutto sommato… papà ha fatto bene a lasciarla. Sorprendente la presenza scenica quando i bambini che giocano a fare i genitori che litigano. Olga si impasta poi la bocca con parole forti, volgari e spietate, non celando né risparmiando nulla ai suoi figli. La sua è una interpretazione realistica, densa di posture viscerali, di gesti espressivi.

Un’altra scena di “Les jours de mon abandon”. Credits: Masiar-Pasquali

Anche luci e la musica sono parte fondamentale dello spettacolo. Il tappeto sonoro creato dal compositore argentino Ezequiel Menalled traduce lo sconvolgimento del mondo di Olga. Funge da amplificatore alle sensazioni di solitudine e spaesamento. Il ronzio del frigo, un rubinetto che gocciola, granelli di zucchero che rimbalzano, le lame del vecchio ventilatore guasto: tutto fa risuonare l’abbandono, scandisce il ritmo del pensiero, della disperazione, e alla fine della liberazione: con accenni a due canzoni – Fotoromanza di Gianna Nannini “Questo amore è una camera a gas”, e il brano Insieme a te  non ci sto più di Caterina Caselli, a sottolineare il nuovo stato d’animo della protagonista. Allo stesso modo, il disegno luci di Amélie Géhin, ispirato alla fissità inquieta degli interni del fotografo Gregory Crewdson (uno dei massimi esponenti della staged photography), contribuiscono a conferire quel carattere di lucida follia vissuto da Olga, la sensazione di spaesamento nel guardare alla vita quotidiana come a qualcosa di familiare e inquietante allo stesso tempo. Le abat-jour, un neon, una luce blu, seguita da una forte illuminazione circolare dall’alto seguono i tilt mentali e i collassi emotivi della protagonista: ora si affievoliscono ora hanno accensioni improvvise quando cade in stati depressivi o in rabbie improvvise.

Quello che sembra follia è invece il primo passo di una donna che si scopre totalmente estranea al ruolo che con devozione ha occupato fino a quel momento. Con una nuova consapevolezza di sé, Olga è pronta a scrivere un nuovo capitolo della sua vita. Che necessita della demolizione di tutto ciò che finora era stato costruito. Plasticamente e fisicamente, la bellissima e potente scena finale si anima di spettatori, invitati da  Olga- Gloria a smantellare la gabbia- appartamento. La  casa sparisce. Si stendono teli, si portano ombrelloni, secchielli, cappelli, bevande mentre un’aria festosa riempie il teatro al ritmo di una canzone estiva mai passata di moda, di Edoardo Vianello, “con  pinne fucili ed occhiali da sole, dove il mare è una tavola blu ,sotto un cielo di mille colori”. I due bambini entrano felici insieme alla loro madre ritrovata.  

Il  prossimo lavoro di Saitta sarà una collaborazione con la coreografa argentina Lisi Estaràs, che ha fondato una compagnia di danza contemporanea con sede a Gand, in Belgio: uno spettacolo che prenderà le mosse da Il giardino dei Ciliegi di Anton Čechov. Aspettiamo il suo ritorno  con impazienza.

Di Cristina Tirinzoni

Giornalista professionista di lungo corso, ha cominciato a scrivere per testate femminili (Donna Moderna, Club 3, Effe, Donna in salute). E’ stata poi per lungo tempo redattore del mensile Vitality e del mensile Psychologies magazine e Cosmopolitan, occupandosi di attualità, cultura, psicologia. Ha pubblicato le raccolte di poesie Come un taglio nel paesaggio (Genesi editore, 2014) e Sia pure il tempo di un istante (Neos edizioni, 2010).

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