I “Sei personaggi in cerca d’autore” nella riscrittura spiazzante del regista Binasco. Si replica allo Strehler fino al 9 marzo. Poi l’evento andrà in scena anche nei teatri di Trieste, Roma, Massa, Ferrara e Ancona
Il classico Luigi Pirandello? Un pezzo da museo. Giusto e necessario liberarlo dalla museificazione contravvenendo al copione originale. Lo afferma convinto Valerio Binasco, regista e attore tra i più apprezzati e premiati della scena italiana , che con “Sei personaggi in cerca di autore”, in scena al Teatro Strehler di Milano, torna Pirandello, con un’opera che all’ennesima potenza contiene i capisaldi del teatro del grande drammaturgo siciliano, Premio Nobel per la Letteratura. E con allestimento spiazzante che, il regista ne è ben consapevole – farà arrabbiare i devoti di Pirandello. Sarà per questo che Binasco mette le mani avanti quando avverte il bisogno di precisare “Da Pirandello” invece del “di” iniziale. Traslazione non da poco. E subito si notano forti la mano e la rilettura di Binasco, tesa verso la semplificazione del testo nel suo nucleo più cervellotico, smontando, aggiungendo o sottraendo parte del copione originale. L’effetto dirompente della regia di Binasco sta forse proprio nell’uscire dalla dinamica pirandelliana paradossalmente con le stesse armi. Un Pirandello contro Pirandello. Binasco gioca beatamente in questo doppio gioco con l’ autore dei Sei personaggi, ormai prigioniero della sua “museificazione”. Quando debuttò nel 1921, al Teatro Valle di Roma, il pubblico si trovò di fronte a qualcosa di completamente inedito, un assalto alla forma del teatro borghese, un corto circuito fra realtà e finzione, che fece gridare alla platea in sala “Manicomio, manicomio”. Un teatro che cent’anni fa era innovativo e adesso è diventato con tutta evidenza un classico, con una trama e una forma scenica ormai cristallizzate. Insuperabile e insuperato, da richiedere rispetto filologico maniacale per il testo e la messa in scena, così come maniacalmente Pirandello l’ha indicata nella sue didascalie.

Binasco sfida la ripetitività , il déjà-vu di certi cliché negli allestimenti del teatro dei nostri tempi, prende sul “serio” la rivoluzione teatrale pirandelliana, e la porta alle sue estreme conseguenze. Nell sua divertita, dissacrante talvolta rilettura, ripete e riverbera, aggiornato, il giuoco pirandelliano. A portare il primo scompiglio sono i Personaggi: quatto, senza i due bambini. La scena, a differenza di quella indicata da Pirandello ambientata sul nudo palcoscenico di un teatro, è collocata in una palestra. Ha persino l’ardire di riscrivere il finale con un colpo di scena (o meglio di pistola) del riottoso scontroso figlio che dopo 104 anni si ribella al copione scritto per lui da Pirandello, a differenza degli altri personaggi che ossessivamente continuano ancora a chiedere, di teatro in teatro, di poter rivivere sulla scena l’eterno ritorno del loro dramma lasciato incompiuto dall’autore che aveva deciso di buttarlo nel cestino. Un finale spiazzante per lo spettatore che conosce la versione originale. Ma che risuona come una sorta di nemesi. “Basta. Finisce così questa storia, sempre così. Sempre così. Lei annega nella vasca e lui si tira un colpo. Bum. Loro li prendono in braccio e fanno la loro scena di disperazione. “Io non ne posso più di tutto questo!», grida esasperato il Figlio. Talora, spiace dirlo, la semplificazioni, comprensibili per sottrarre il testo pirandelliano impregnato di raffinato cerebrale filosofare, insieme all’ esasperazione dell’effetto comico hanno portato a una “cancellazione” del portato drammatico del testo (seppur racchiuso nel proverbiale distacco dell’ironia pirandelliana.
Lo spettacolo (scene di Guido Fiorato, costumi di Alessio Rosati, luci di Alessandro Verazzi), ha inizio con il sipario parzialmente aperto e le luci di sala accese, che non si spengono neppure quando sul palcoscenico viene svelato finalmente nella sua interezza: un ampio salone, forse una palestra di una scuola in un seminterrato, un canestro da basket a mezza altezza, un grammofono, un tavolo con vecchie sedie, una porta che dà su un’uscita, più in aggiunta un’altra porta a vetri. Irrompe prima un attrezzista, poi il capocomico-direttore che mima lo sbatter delle famose uova di Leone Gala e infine una marea di giovani che vestono abiti di oggi, rumorosi ribelli, ragazzi che cercano di fare canestro, parlano tra di loro, bisticciano, si rincorrono, si baciano e che, svogliatamente, stanno provando “Il Giuoco delle Parti” di Pirandello, diretti dal Capocomico. E la presa di distanza di Binasco dal solito accostarsi a quel testo (da parte sia dei registi, sia degli attori, sia del pubblico di una paralizzante abitudine, viene testimoniata in maniera inequivocabile fin dalla sequenza iniziale, ovviamente del tutto inventata e in cui assistiamo a un sarcastico battibecco fra il Capocomico e due degli attori che dovrebbero interpretare Il giuoco delle parti: “ma questa roba fa schifo, Pirandello è di una pesantezza appiccicosa e insopportabile”. E la risposta del Direttore-Capocomico: “Non è colpa mia se la drammaturgia contemporanea non esiste più. Ecco perché facciamo “Il giuoco delle parti”. “Ma , Direttore, per chi lo stiamo facendo questo spettacolo? Lei per chi lo vuole fare? Non esiste una storia, una, che sia in grado di parlare a noi? Di noi?”. Scatenando le risate del pubblico (cosa che succederà spesso).

E in questo chiassoso coro, dopo un tempo più lungo (forse troppo lungo, occorre dirlo), sul palcoscenico si materializzano il Padre, la Madre, la Figliastra, Il Figlio con i loro abiti anni Venti e con un trucco marcatissimo, ognuno con il suo tormento. Personaggi di fantasia abbandonati dal loro autore e che da oltre un secolo stanno vagando da un tetro all’altro alla ricerca di qualcuno che metta in scena il loro dramma familiare. Valerio Binasco si porta sulle spalle un Padre dolorante ma anche ancora ossessionato dalla seduzione che la figliastra ha esercitato su di lui, sempre alle prese con un fazzoletto con il quale si asciuga naso e lacrime. Sara Bertelà, pur nella stringatezza ed estrema stilizzazione delle battute che il copione le assegna, è una mater in lutto di dolorosa efficacia. Il Figlio è interpretato da Giovanni Drago, ostile, taciturno e ruvido, un paio di occhiali scuri, toccherà a lui, come già anticipato, a riscrivere in qualche modo anche il finale contravvenendo al copione originale. Jurij Ferrini in chiave caricaturale interpreta la parte del Capocomico in profonda crisi creativa. Senza freni, sprezzante “spavalda, quasi impudente” (così la volle l’Autore) provocante, accanita nel suo odio verso il patrigno è la Figliastra di Giordana Faggiano, brava, ma con qualche enfasi di troppo come quella esasperante risata. Supplicano, insistono, raccontano frammenti della loro storia.
Il cuore della riscrittura spiazzante di Binasco punta a a riconsegnare i sei personaggi alla più radicale e vorace contemporaneità: l’autentica tragedia dei personaggi, che, straziati, non cercano solo un Autore, ma qualcuno che li comprenda, li ascolti e li accetti per come sono. Un bisogno di ascolto e più ancora il bisogno compulsivo di narrarsi, che è tipico del nostro tempo, e di essere ascoltati. È questo che fa Binasco regista: immaginare un ascolto possibile fra quei personaggi prigionieri del loro dolore e quel gruppo di giovani attori scombinati che recepisce, osserva, irride, compatisce, e cerca di far proprio ciò che sente dai personaggi. E di noi spettatori seduti in poltrona in platea.
Dopo un’iniziale resistenza, il capocomico accetta la surreale proposta dei personaggi, È questo confronto che si risolve in un dialogo che piace del lavoro di Valerio Binasco. Insorgono dei problemi. I personaggi aspirano ad essere gli attori di se stesse e poi rifiutano l’interpretazione degli attori della compagnia nei quali non si riconoscono affatto. Lo spettacolo non andrà in scena. Però hanno cercato di avvicinarsi. Nel finale si prendono tutti per mano in un lento incedere verso la ribalta. Tutti lì sulla scena. Accolti da calorosa ed entusiasti applausi del pubblico.
Ecco il quid, il senso del fare teatro (su cui si interrogava il Capocomico in crisi e lo stesso Binasco.) Stare insieme, prestare ascolto e se possibile riflettere. Per fare al meglio quel complicato e straordinario mestiere di vivere, in una società, dove oggi il movimento fra finzione e realtà è incessante e il confine sempre più difficile da individuare.
Si replica allo Strehler fino al 9 marzo. Trieste: Rossetti il 13 marzo ; Roma: Argentina 19-30 marzo; Massa: Guglielmi 1-2 aprile; Ferrara: Comunale 4-6 aprile ; Ancona: Delle Muse 10-13 aprile.