Abdullah Öcalan invita tutti i gruppi a deporre le armi (foto Ansa-Blitzquotidiano)

“Tutti i gruppi devono abbandonare le armi, il Pkk deve sciogliersi. Io chiedo di abbandonare le armi, mi prendo la responsabilità di questo appello”. Lo ha dichiarato il leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, in un messaggio letto durante una conferenza stampa a Istanbul da politici del filo-curdo Dem

Torna alla ribalta, almeno nelle voci riferite dagli analisti, il tema del disarmo del Pkk. Lo patteggerebbe ancora una volta il grande recluso Abdullah Öcalan, autore di colloqui già nei mesi scorsi col maggiore alleato di Recep Tayyp Erdoğan: il nazionalista Devlet Bahçeli. Sì, l’anziano capo dei Lupi grigi, ingrigito anch’egli dagli anni ma sempre in sella e addirittura regista degli incontri segreti col leader kurdo, chiuso da venticinque anni nel carcere di massima sicurezza di İmrali. Il capo nazionalista, in base a un dichiarato  “diritto alla speranza”, baratterebbe la liberazione di Öcalan in cambio all’addio alle armi da parte del Partito dei Lavoratori del Kurdistan. La minestra è riscaldata, perché un simile approccio c’era stato fra il 2010 e il 2012, gestito in quel caso direttamente da un Erdoğan leader dell’Akp e primo Ministro. Era decisamente un’altra epoca per quanto accadeva nel Paese e dintorni. Le stesse strategie del Pkk verso la comunità kurda a lui più prossima, quella turca e siriana, seguivano percorsi che il conflitto in terra siriana orientò in modo differente, anno dopo anno nel crescendo d’un conflitto gonfiato e generalizzato. Fra l’altro la dotazione e l’uso delle armi nei territori controllati dall’emanazione locale del Pkk, il Partito dell’Unione Democratica (Pyd) e le Forze di Difesa Popolare (Ypg), e la contrapposizione rivolta soprattutto alle milizie dello Stato Islamico, imponevano il mantenimento dell’armatismo. La progressione del conflitto, congelato dopo la sconfitta dell’Isis e la caduta definitiva del regime di Asad impongono un panorama interno alla Siria e un altro in Turchia. Oddio, nello scenario siriano, quand’era un apertissimo campo di battaglia, la linea di Erdoğan ha scorrazzato su ogni versante. Dall’aiuto goffamente celato ai gruppi islamisti con forniture di denaro e armi, a un successivo intervento del proprio esercito, in contraltare a quello russo, per gestire tratti di territorio. Al presidente turco, compiacente l’alleato Bahçeli, faceva gioco creare a sud del confine nazionale un’area cuscinetto profonda trenta chilometri per sradicare la presenza armata kurda nel cosiddetto Rojava.

Abdullah Öcalan, leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, in carcere dal 1999

Accadeva dal 2018, quando lo Stato Islamico era piegato, e Asad, tenuto in sella da Mosca e Teheran, restava a controllare la provincia di Damasco. I combattenti kurdi, riforniti dagli Usa restavano in parte a far da guardiani ai luoghi di reclusione degli sconfitti del Daesh e dei loro familiari, come nel mega campo di Al Hol, mentre la maggior parte per evitare la morsa dell’esercito turco si dirigeva ancor più a Levante, in stretto contatto col grande laboratorio dell’addestramento (militare e ideologico) del Pkk posto sulle montagne di Qandil, a ridosso del Kurdistan iracheno. Quell’area puntualmente subisce le vendette dell’aviazione di Ankara, sin da quando all’azzeramento dei colloqui era seguita la grande repressione di terra del 2015-2016 nei territori del sud-est anatolico, o in occasione di agguati esplosivi rivolti a militari e civili, in cui si sono distinti i dissidenti kurdi detti “Falchi della Libertà”. Dopo un congelamento durato sino al 2023, il puzzle siriano è messo a soqquadro dal cambio di passo di Putin totalmente coinvolto in Ucraina e disinteressato a sostenere i soldati di Damasco, dal conflitto di Gaza con cui Israele colpiva anche Hezbollah spezzando il supporto Pasdaran ad Asad, poi spodestato dall’offensiva islamista di Hayat Tahrir al-Sham e dal liquefarsi dell’esercito lealista. Molto si rimescola. Ora Ahmad al-Sharaa, che vuole rifondare la Siria predicando l’inclusione, propone ai kurdo-siriani di entrare nel nuovo esercito, una mossa cui s’uniscono i piani per la nuova Costituzione, giustizia e libertà personali. Che farà la comunità kurda del sogno del Rojava, caratterizzata da accenti etno-nazionali per un autogoverno con cui versando sangue cercava alternative al centralismo alawita degli Asad? Egualmente in Turchia l’autogoverno che Öcalan proponeva bypassando lo Stato-nazione, esaltando i valori dell’eguaglianza di genere e dell’ecologia, che spazi può trovare in una trattativa incentrata sullo scioglimento dei reparti armati cui l’accademia di Qandil non vuol rinunciare? Poiché i kemalisti del Chp inseguono il cambio di governo alle prossime elezioni, Erdoğan e Bahçeli chiedono una contropartita spendibile con l’elettorato turco. La pacificazione interna rappresenta un obiettivo che vale milioni di voti. Öcalan può diventare l’ago della bilancia kurda e turca in un panorama che fluttua in un’instabilità desiderosa di stabilizzarsi.

articolo pubblicato su    http://enricocampofreda.blogspot.it

Di Enrico Campofreda

Giornalista. Ha scritto per Paese Sera, Il Messaggero, Corriere della Sera, Il Giornale, La Gazzetta dello Sport, Il Corriere dello Sport, Il Manifesto, Terra. Attualmente scrive di politica mediorientale per il mensile Confronti, per alcuni quotidiani online e sul blog http://enricocampofreda.blogspot.it/ Publicazioni: • L’urlo e il sorriso, 2007 • Hépou moi, 2010 • Diario di una primavera incompiuta, 2012 • Afghanistan fuori dall’Afghanistan, 2013 • Leggeri e pungenti, 2017 • Bitume, 2020 • Corazón andino, 2020 • Il ragazzo dai sali d’argento, 2021 • Pane, olio, vino e sale, 2022 • L'Intagliatore 2025

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