E’ in scena al Teatro Grassi di Milano, fino al 23 febbraio, una potente pièce teatrale scritta e diretta da Petrillo, liberamente tratta dagli scritti e dalla dichiarazioni dello scrittore
ll 3 maggio del ’45, Ezra Pound, straordinario poeta del Novecento, ormai sessantenne, mentre traduceva Confucio nella sua casa a Rapallo, fu arrestato dagli americani con l’accusa di alto tradimento nei confronti del proprio paese, e recluso in una condizione disumana nel campo di prigionia dell’esercito americano di Coltano, vicino a Pisa. In una gabbia in metallo, a cielo aperto, circondata da filo spinato. Come un animale da zoo. In piena estate, sotto al sole di giorno e sotto i fari di notte, una fetta di pancarré al giorno, una coperta per coprirsi, i bisogni corporali da fare lì, davanti a tutti. Dopo tre settimane venne rimpatriato in America e rinchiuso nel manicomio criminale di Saint Elizabeth dove avrebbe trascorso tredici anni, il primo anno in completo isolamento, in una cella senza finestre, senza contatti con l’esterno. Senza alcun processo. Pagò care le sue trasmissioni in inglese all’Eiar a favore del regime fascista. Verrà dichiarato pazzo. Pazzo per le sue idee. Tredici, lunghi anni, che lo condussero davvero alle soglie della follìa e al silenzio. Un profondissimo silenzio. Più assordante di un urlo.

Fino al 23 febbraio è in scena al Teatro Grassi di Milano “Ezra in gabbia o il caso Ezra Pound”, una potente pièce teatrale scritta e diretta da Leonardo Petrillo, liberamente tratta dagli scritti e dalla dichiarazioni dello scrittore, con un grande Mariano Rigillo (attore di razza di lungo corso e che ha fatto letteralmente “scuola” di recitazione del Teatro Stabile di Napoli) con stupefacente somiglianza fisica al poeta americano, nella barba e nell’acconciatura dei capelli bianchi, fiaccato in un affiatato tandem con all’attrice Anna Teresa Rossini (anche moglie di Rigillo) a cui dobbiamo momenti vibranti con la declamazione, tra gli altri, dei celebri versi, ripetuti con insistenza, come un imperativo etico “Strappa da te la vanità. Ti dico strappala”. Scene di Gianluca Amodio, disegno luci Enrico Berardi, musiche Carlo Covelli.
Una gabbia: quella dove fu rinchiuso Ezra Pound. Ma anche la gabbia ideologica, con cui troppo a lungo è stato sbrigativamente rinchiuso: fascista e antisemita. Pound fu figura ben più complessa e controversa. Ma sicuramente uomo intellettualmente libero. Una scelta meritoria e coraggiosa. Occuparsene, di Pound, per molto tempo ha voluto dire schierarsi in una determinata area politica. Il poeta americano fu affascinato dalla figura di Benito Mussolini, non ci sono dubbi. Ma va ricordato anche che espiò duramente questa fascinazione (diversamente da altri). Pound, l’imperdonabile. Ma è impossibile ingabbiare la grandezza della sua poesia. I Cantos (esplicito riferimento alla Divina Commedia di Dante) è l’opera maggiore di Pound, certo la più possente e suggestiva. Avvicinarla è affacciarsi su un vortice, in cui mulinano immagini, lingue antiche e moderne, parole-suoni, pezzi di presente, lacerti di futuro, reperti di passato, in un caos di elementi e in una foresta di simboli Confucio e Dante, Una visione che come osservava il critico Giovanni Raboni: “tuona con l’impeto della Apocalisse”.
Di questo flusso magmatico (impervio, al limite del più serrato ermetismo, a squarci di folgorante intensità lirica di sapore biblico), di questo titanico sforzo di ricapitolare in un vorticismo con un linguaggio da capogiro, l’intera storia del mondo e della civiltà umana- ne fanno parte anche gli undici Canti pisani, scritti durante la prigionia. “Poesie di un pazzo? – scrisse Eugenio Montale a proposito dei “Cantos”- Nemmeno per sogno, a meno che non si vogliano considerare come pazzi i tre quarti degli scrittori d’avanguardia contemporanea”.

La figura di Pound e i suoi versi vertiginosi si fanno presenza viva e concreta nei due attori in scena nel teatro milanese di via Rovelli per 100 serrati intensi minuti senza intervallo. La scena è spoglia, con solo una gabbia: imponente, dietro un fondale dai toni cupi. “Sulle tavole del palcoscenico celebriamo il processo che Ezra non ebbe mai. Colpevole o innocente. Essere liberato oppure no da quella gabbia, a giudicare sarà il pubblico”, ha dichiarato Mariano Rigillo. Nello spettacolo Pound-Rigillo a piedi nudi si avvicina e si rivolge al pubblico: vuole quel processo che non ha avuto, pretende che gli sia restituito l’onore, riafferma la sua battaglia contro i banchieri, i finanzieri, soprattutto gli usurai che corrodono il mondo (“Siamo in una usurocrazia “), contro l’idiozia e l’orrore della guerra (emblematiche le immagini di Filippo Tommaso Marinetti proiettate sullo sfondo). “Se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale nulla lui”. Dopo gli appelli degli intellettuali di tutto il mondo, Pound venne rilasciato dal manicomio criminale. Solo apparentemente libero, perché, giudicato incapace di intendere e di volere, è affidato alla tutela della moglie Dorothy.
C’è uno scatto di Richard Avedon. Una fotografia intensa. Si vede un Ezra Pound, urlante, in piedi, con la camicia aperta, i pantaloni tenuti su solo con un laccio, gli occhi chiusi. Avedon l’ha scattata il 30 giugno del 1958: prima che Pound si imbarcasse per l’Italia. E quell’urlo ha sempre risuonato nella mia memoria visiva. insieme al suo volto ieratico da profeta con la barba bianca, chiuso poi invece in un profondissimo silenzio. Parlerà poco, a monosillabi l durante la leggendaria intervista, accolta con titubanza dalla Rai, che gli fece (1967) nella sua casa di Calle Querini a Venezia, un timidissimo Pier Paolo Pasolini, rispettoso e devoto; un altro controverso intellettuale, un altro pensatore eretico. Entrambi scandalosi, apocalittici e “inadattabili” come Pasolini disse di sé e di Pound . Decise di tornare in Italia, paese che amava molto. Dopo vari soggiorni, fra cui Perugia e Rapallo, Pound si reca infine a Venezia, dove muore il 1 novembre 1972, e qui è sepolto, nella piccola isola in San Michele accanto alla violinista irlandese Olga Rudge, la compagna più amata che gli diede la figlia Mary.
Sul palco di via Rovello, iI congedo finale di Pound, è affidata ad Anna Teresa Rossini, elegante in abito nero, e a quei versi attraverso cui il poeta ci consegna il più profondo e intenso messaggio di vita: “Quello che veramente ami rimane/Quello che veramente ami non ti sarà stappato/Quello che veramente ami è la tua vera eredità. Il resto è scorie” (dai Canti pisani). E’ la conclusione dello spettacolo. Accompagnato da fragorosi, ripetuti applausi del pubblico mentre risuona nell’aria un brano di Bob Dylan, premio Nobel della letteratura. Fu proprio Pound prima di tutti a scorgere nella musica folk una forma di letteratura. Lui il Nobel non lo ebbe mai. Quando nel 1969 lo scrittore Johannes Edfelt propose la sua candidatura, la Commissione del Nobel la bocciò. Anche senza Nobel. E’ di nuovo Mariano Rigillo, visibilmente emozionato, a prendere la parola: “Portate con voi l’idea che Ezra Pound è stato un grande poeta”.