Due milioni di palestinesi da Gaza dovrebbero evacuare nei vicini Egitto e Giordania, secondo il piano Trump. I due stati non sembrano entusiasti della decisione, più per interessi interni che per solidarietà ai gazawi
Prosegue lo scambio di prigionieri fra Hamas e Israel Defence Forces, comprensivo della triste restituzione di corpi senza vita che il governo Netanyahu definisce macabra e di rimando il Movimento Islamico di Resistenza ricorda come quei cittadini siano vittime dei bombardamenti di Tel Aviv, come tanti civili di Gaza. Ma la geopolitica pensa alla “sistemazione” della Striscia secondo il piano Trump che sollucchera Israele: evacuare i due milioni di palestinesi, destinandoli ai vicini Egitto e Giordania. La chirurgica distruzione abitativa che ha reso spettrali i 42 chilometri di territorio e profuga in loco l’intera cittadinanza dovrebbe agevolare l’intento camuffato in soluzione tampone per un’emergenza che, visto lo scempio perpetrato, può restar tale per anni. Le stesse agenzie internazionali prestatrici di soccorso umanitario e sanitario non nascondono le assolute difficoltà a intervenire in un simile contesto. Già il presidente americano s’è fatto sotto con l’omologo Abd al-Fattah al-Sisi e col monarca giordano perché sostengano un’iniziativa che ha i contorni della Nakba patita dalla popolazione palestinese nel 1948. Al rifiuto del mondo arabo per la sciagurata ipotesi, i due capi di Stato interpellati si sono mostrati scettici più per interessi interni che per espressa solidarietà verso i gazawi. Che giungerebbero da profughi, figure male accolte da governi e popolazione locale. C’è da ricordare che degli undici milioni di giordani circa tre sono palestinesi lì rifugiati nelle varie ondate di espulsione dal territorio occupato da Israele e divenuto Stato sionista. Fra i profughi una buona parte è ormai integrata nella società, ma trecentomila vivono tuttora in campi con l’unico sostegno delle Nazioni Unite. Inoltre la dinastia hashemita ha un passato burrascoso con le organizzazioni politiche di rappresentanza palestinese, quella che fu l’Olp di Yasser Arafat nel 1970, cercando di rovesciare il regno di Husayn venne respinta dall’esercito nazionale con un’ampia perdita di miliziani fedayn (cinquemila vittime).

I militanti palestinesi trasportano una bara il giorno in cui Hamas consegna gli ostaggi deceduti, rapiti durante il mortale attacco del 7 ottobre 2023. REUTERS/Hatem Khaled
Sempre ragioni politiche portano il presidente egiziano al Sisi a vedere come fumo negli occhi gli islamisti. Nel 2013 lui ha preso il potere con un golpe lanciato contro un esponente della Fratellanza Musulmana e pensare di ospitare cittadini finora governati dalla frangia palestinese della stessa Confraternita è un’ipotesi inaccettabile. Però neppure velatamente, com’è nel suo stile, il capo della Casa Bianca che sta riscrivendo la politica estera della potenza che governa, fa balenare l’arma del ricatto. Un po’ come per i dazi minacciati a destra e manca sui mercati del commercio globale, ricorda ai militari del Cairo (la lobby che sostiene Sisi) come nell’ultimo ventennio il grande Paese arabo sia stato rifornito per oltre il 40% da armi statunitensi, quelle armi sono servite nella repressione interna al tempo delle rivolte di Tahrir e nella lotta contro il jihādismo organizzato nel Sinai. Non solo. La debolezza economica egiziana è nota e di vecchia data, annualmente Washington versa 1,3 miliardi di dollari all’esecutivo di Sisi, per non parlare dei buoni uffici con cui ha fatto aumentare da 3 a 8 miliardi di dollari gli aiuti versati dal Fondo Monetario Internazionale. La stessa Giordania non è da meno, anche lei da lungo tempo è armata e sovvenzionata dagli Usa affinché incarni un perfetto Stato satellite, alleato e servile alle scelte americane nella regione al di là di chi detti la linea dello Studio Ovale. Davanti all’irrisolutezza trumpiana per Il Cairo e Amman una possibile boa di salvezza potrebbe scaturire dai petrodollari sauditi ed emiratini, visto che le recenti voci di Mohammad bin Salman Al Sa’ud e Mohammed bin Zayed Al Nahyan proprio sull’idea di “far traslocare” altrove la gente di Gaza non avallano affatto il progetto trumpiano. Peraltro quello che era stato fino al termine del suo primo mandato il ‘Patto di Abramo’ non solo non è mai decollato, ma ha subìto un arresto sostanziale. La gestione della sicurezza nella regione è tutta da scrivere alla luce dei catastrofici eventi seguiti al 7 ottobre, se l’intero mondo arabo si metterà di traverso il tycoon-presidente avrà come unico interlocutore Netanyahu. Ma gli emiri s’accolleranno i debiti egiziani e giordani? Per quanto tempo? E il sostegno potrà durare?
articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it