“Le cinque rose di Jennifer” è un noir divertente e spietato che lanciò il grande talento di Ruccello
Il regista napoletano Gabriele Russo riporta in scena la sua versione de Le cinque rose di Jennifer, il monologo che rivelò il grande talento di Annibale Ruccello (è stata stata rappresentata per la prima volta nel 1980 con protagonista lo stesso Ruccello). Un noir divertente e spietato al tempo stesso, nel segno del kitsch, per riflettere sulla solitudine che segna – sempre – le diversità. In scena, un inedito Daniele Russo (fratello del regista) affiancato da un allestimento che restituisce tutta la malinconia del testo senza sacrificarne l’irresistibile umorismo. Si ride in verità di cose terribile, la solitudine, l’emarginazione, il sogno dell’amore sempre aspettato.
Lustrini, paillettes, tacchi a spillo rimescolano le carte della sessualità di Jennifer, il femminiello travestito che abita in un quartiere popolare nella Napoli degli anni ’70 colorata e chiassosa, violenta. Una stanza in disordine, tra ninnoli vari, pacchetti di sigarette, profumi e ciprie, un vaso con cinque rose rosse appassite, un portaritratti senza foto, indumenti femminili sparsi un po’ dovunque, un baule dentro cui viene lanciata qualsiasi cosa, un tavolo ingombro dei resti di una cena, un divano rosso circolare, la toilette dove trasformarsi da uomo in donna..
Il kitsch della stanza è terribile, aspro, i colori sono così violenti e decisi che caricano l’atmosfera di passione, di desiderio, di rabbia, di violenza, disperazione e oscurità. A tenerle compagnia, un telefono che squilla insistente a più riprese per le chiamate di gente che sbaglia numero o per strane interferenze e una radio d’epoca che resta accesa ininterrottamente sulle frequenze di Radio Cuore libero e trasmette solo canzoni d’ amore di Mina, Ornella Vanoni, Patty Pravo a richiesta dedicate da altri trans ai loro amori, interrotta da sinistri messaggi d’avvertimento su un maniaco che ammazza sistematicamente trans, nel quartiere, lasciando, a mo’ di firma, cinque rose rosse sul corpo.
Jennifer indossa una sfarzosa vestaglia vaporosa di raso rosso dal lungo strascico con diverse balze (quella che credevamo una tovaglia, sul tavolo) sulla vertiginosa altezza del décolleté blu con tacco 20, trucco esagerato, anzi sbavato. Tutto rimanda a una femminilità cercata, sognata, esibita, esagerata, affermata con tutte le forze per somigliare a quella che intimamente Jennifer si sente. I sentimenti che animano Jennifer sono estremi come quei rossi e quei neri. della stanza . Sta aspettando (da tre mesi) la telefonata di Franco, l’ingegnere di Genova di cui è innamorata , Non giungerà mai ne arriveranno altre, tutte sbagliate. Jennifer risponde al telefono, parla, ride, grida, insulta, si agita, rigorosamente in dialetto napoletano, che tutto colora e rende più verace. Si stende sul canapè in posa ferina, sempre oscillando tra il riso ed il pianto, tra il comico ed il tragico, si trucca, s’infila un abito da sera nero, un body di pelle rosa e calze a rete. Lo spettacolo all’inizio è al tempo stesso divertente e straziante , le conversazioni telefoniche, e il patetico strip-tease” iniziale di Jennifer con La bambola di Patty Pravo, suscitano il riso degli spettatori o quando corre mezza nuda o apre le gambe e dice sconcezze. Ma perché spingere sul pedale e scegliere di rappresentare Jennifer proprio secondo quelle stereotipizzazioni, basati su appunti personali del publisher presi alle lezioni del prof., quei canoni esageratamente macchiettistici ancora oggi nel 2023?. Dopo i primi venti minuti di spettacolo, si passa dalle risate alle lacrime, dalla leggerezza alla malinconia, dalla speranza alla rassegnazione. E cresce l’inquietudine. Dall’inizio, le gira attorno in penombra uno spettro silenzioso, uno scuro Pierrot (interpretato da Sergio del Prete).
Bussano alla porta. E’ il trans Anna, il fantasma che fino a quel momento aveva girato instancabile intorno alla stanza. Anna con in mano un coltello, delirante perché le hanno ucciso il gatto. Dunque , provi a concludere, è lei il misterioso maniaco che si aggira per il quartiere in cerca di vittime? Come scrive il regista nella note “è un testo in cui scavare, per tirare fuori sottotesti, possibilità, suggestioni, dubbi.”. Ad esempio, chi è Anna? l’assassino, la personificazione della tristezza di Jennifer? Gli omicidi stanno accadendo realmente? Le telefonate sono vere o inventate? Forse anche Franco non è mai mai esistito, è solo nella dell’immaginazione di Jennifer. Ma non ha nessuna importanza cosa sia reale e cosa immaginato. Reale è il dolore di Jennifer che vive nell’attesa di qualcuno che la ami per quella che è: né uomo né donna veramente, ma uomo e donna contemporaneamente. L’attesa dell’amore è l’unico elemento che la manterrà “viva” fino alla fine, E paradossalmente sarà proprio il desidero di amare ed essere amata, di essere vista ed accettata, di essere scelta e voluta, a condannarla a morte. Un colpo di pistola. Torna la luce in scena.. La luce dell’abat-jour. E ciò che, in fondo in fondo, già sapevamo pur se non emerso ancora a livello di coscienza, prende corpo. Jennifer è lì. Riversa per terra. La pistola. La casa in disordine, le solite cinque rose rosse sul corpo. Indifferente squilla il telefono. Mentre si chiude lentamente nel buio il sipario,, sulle note di Nada che canta :”Cosa e la vita senza l’amore?…ma che freddo fa”.
Che fare di una vita senza amore: questa è la vera domanda al centro del testo. Sempre attuale. Vale per tutti, trans e etero.