Continua la politica del terrore di Netanyahu che, mentre parla all’Onu con tante sedie lasciate vuote da chi lo considera un criminale, ordina il bombardamento su Daiyeh, in Libano, per colpire quel che resta dei capi di Hezbollah. In meno di una settimana le forze di difesa israeliane hanno causato 1600 vittime, in grandissima parte civili
Punta in alto Benjamin Netanyahu. Mentre lui interviene al Palazzo dell’Onu – premettendo che non l’aveva in programma, ha cambiato idea davanti alle fake news su Israele e sulla sua politica pronunciate da chi l’aveva preceduto – l’aviazione di Tel Aviv sgancia su un’area residenziale di Dahiyeh devastanti missili anti bunker. I servizi israeliani avevano individuato quel luogo come punto d’incontro di quel che resta dei capi di Hezbollah. Un vertice operativo per decidere se oltre agli attacchi missilistici sulla Galilea settentrionale, e potendo ancora più giù, l’organizzazione militare sciita prendeva contromisure davanti allo stillicidio di bombardamenti cui Beirut, la Bekaa, l’area di Tiro e Sidone sono sottoposti da giorni. Visto che in neppure una settimana le vittime sono 1.600, superiori ai 34 giorni del conflitto del 2006. A quell’appuntamento avrebbe partecipato anche Hassan Nasrallah, dunque colpire sarebbe stata un’occasione da non perdere. Poco prima delle parole d’un baldanzoso Bibi gli F-16 sono decollati mirando al luogo preposto. Lui sapeva e gongolava, sperando nel colpo grosso che tuttora non è chiaro se sia andato a segno. Terminato il discorso – con tante sedie lasciate vuote nel Palazzo di Vetro da chi lo considera un criminale – il primo ministro israeliano è stato reimbarcato dalla sicurezza ed è tornato a gestire la fase di guerra profonda che conduce in Libano. Fino a tarda sera sono circolate solamente voci: il chierico è illeso ed è al sicuro. E’ ferito, ma vivo. Invece è dato per morto il suo vice e cugino, Hashim Safieddine. Ma anche quest’affermazione più che una notizia, non ha certezza. Le fonti del Partito di Dio, ovviamente minimizzano i danni. Parlano di due deceduti e settantasei feriti, civili e abitanti dei residence rasi totalmente al suolo. Vivevano sopra il bunker, il bersaglio cercato e centrato. L’incolumità per il segretario generale del gruppo sciita consisterebbe nel non risiedere più né Dahiyeh, né a Beirut, né in Libano, cosa peraltro possibile. Ma com’è accaduto ad altri nemici d’Israele, freddati da esecuzioni mirate, per azzerare i pericoli occorrerebbe smaterializzarsi.
L’uomo in nero non appare in pubblico da anni, conduce un’esistenza celata e dimessa, ma trovarsi fuori dal territorio oggi bersagliato, sarebbe quasi un tradimento per la sua gente e per gli stessi miliziani che lo venerano. La fase è difficilissima per Hezbollah. Colpito come non mai nell’intera scala del nucleo bellico, quasi sicuramente infiltrato dal Mossad che ha realizzato il colpo della fornitura dei beeper manomessi e resi micidialmente esplosivi, esposto a un repentino, defatigante, rischioso rimpiazzo di uomini-guida diventati target a seguire d’una roulette assassina. Il volume di fuoco dai cieli, contro cui né il Partito di Dio né il liquido esercito libanese possono nulla privi come sono di flotta aerea, ha distrutto in questi giorni numerosi depositi di armi. Forse l’organizzazione di terra, se mai dovesse verificarsi l’invasione di Tsahal che alcuni suoi stessi generali vorrebbero evitare, condurrebbe il gruppo di Nasrallah alla disperata difesa di città e villaggi, però ora paiono palesi la sua difficoltà militare e il suo incastro politico. Se gli sciiti libanesi dovessero restare addirittura orfani del padre-padrone di almeno due decenni di direzione, lo sbando sarebbe enorme. Netanyahu punta a questo. Visto che il protettore iraniano rimane fermo e tale vuoto si sente fra le famiglie sciite che fuggono dal sud sciita, il simulacro di patria in uno Stato che non esiste più da tempo, l’ambiente che rappresenta per loro una speranza di futuro. Ma le bombe, i crolli, le vittime – martiri o inconsapevoli – sono lo spettro di chi inizia a pensare che si possa finire come Gaza. E chi ha più di trent’anni e la memoria di quanto accadeva negli anni Ottanta ha una crescente paura. Perché il volume di fuoco è cresciuto, la tecnologia ancor più. Beirut non trova, come a quei tempi, gli edifici crivellati dalle infilate dei mitra, vede cumuli di macerie che diventano tombe, una gigantesca necropoli. Appunto come nella Striscia, prigioni e cimiteri dove Israele ha deciso che non ci dev’essere domani. E che le assise mondiali permettono.
articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it