La Fondazione Luigi Rovati di Milano, dal 14 settembre al primo dicembre 2024, ospita la mostra di Galimberti; una carrellata di sguardi e di undici ritratti fotografici

“Sono molto contento di questa mostra fotografica. Nonostante la  drammaticità di alcune vite, nel tempo ‘pungente’ che ho trascorso al Paese de La Meridiana, una grande bellezza , e ho scoperto nelle persone qualcosa di veramente unico e un valore incredibile: io lo chiamo ‘il vivere magico’. Infatti la “cifra” dell’assistenza e della cura fornita alle persone che vivono nelle strutture della cooperativa, è un’attenzione fattiva e instancabile alla qualità della loro vita. Quindi sì, sono davvero onorato di aver partecipato a questo progetto”. Dal 14 settembre al primo dicembre 2024 la Fondazione Luigi Rovati di Milano ospita la mostra Fotografia imperfetta dentro il fragile vivere (ingresso gratuito). Una carrellata di sguardi e di 11 ritratti fotografici realizzati da Maurizio Galimberti, Protagonisti alcuni  dei 64  residenti del Paese Ritrovato, il villaggio per la malattia di Alzheimer, progettato e realizzato dalla Cooperativa La Meridiana di Monza. “Un’imperfezione che emoziona. E questo è un po’ il senso della vita che è meravigliosa, fragile e imperfetta nello stesso tempo”, sottolinea  il fotografo famoso per i suoi ritratti alle celebrità del cinema, dello sport, della cultura, della società con la sua Polaroid.

“La bellezza e l’amore devono essere sempre tutelati, soprattutto nel tempo della fragilità e della malattia. Ho fotografato i soggetti con molto rispetto. E  molto velocemente,  davanti a una grandissima lavagna nera, che simboleggia forse un po’ anche il buio di quelle  esistenze travolte dal decadimento cognitivo e dalla perdita della memoria. Il  tutto è stato rapido e intenso proprio per il desiderio di raccontare le persone nella loro immediatezza e spontaneità. Non è pensabile che la fotografia sia accademica. Sono foto estremamente naturali, senza artifici. Quando fotografo cerco la bellezza  più profonda, l’uomo, con la sua vita, le sue sofferenze, la sua positività. E in questo caso è  la forza nascosta nella fragilità di queste donne e di questi uomini. Ciascuno con il suo passato tenuto stretto stretto da qualche parte, anche se è difficile trovarlo”, ha  raccontato il fotografo, con la sua  voce profonda. Un clic come una carezza,  ricomponendo i pezzi delle loro vite frammentate e scompaginate dalla malattia. Maurizio Galimberti.  comasco, classe 1959, è celebre in tutto il mondo  per aver reinventato la tecnica del mosaico fotografico: scompone e ricompone con le sue istantanee  Polaroid frammenti di realtà e volti celebri. La consacrazione mondiale arriva nel 2003, quando il suo ritratto di Johnny Depp viene pubblicato sul “Times Magazine”. Uno dopo l’altro si moltiplicano i vip che si fanno fotografare da lui. Avvicina i divi con la macchina fotografica istantanea racchiusa nel collector, una specie di scatola, e gliela accosta al viso come se dovesse eseguire una radiografia. Dopodiché scatta. Ne fa una matrice e con un gesto cubista  la scompone, la altera, la moltiplica, la modifica. Una tecnica che inizialmente adatta ai ritratti, in seguito, riconduce la sua tecnica anche nella fotografia  dei paesaggi, delle architetture e delle città.

Quali sono le ragioni che l’hanno spinta a sostenere questa iniziativa solidale  del Paese ritrovato?

“La mia storia personale mi ha sempre spinto a fare del bene. Fino ai 5 anni ho vissuto in istituto, perché mia madre diciassettenne, quando mi partorì, mi abbandonò all’ospedale di Como. Sono stato portato via dall’orfanotrofio e adottato da Eleonora e Giorgio Galimberti, i miei genitori. Insomma, il primo gesto di solidarietà della mia vita l’ho visto molto presto. Da qui l’importanza di iniziative come questa della Fondazione Rovati e della cooperativa La Meridiana , che riescono a fare luce sulle diverse sfumature della malattia. Avevo fotografato malati di Alzheimer nel 2001, allora però avevo quarantaquattro anni, ora mi sono confrontato con coetanei. E’ stata la campagna del 5×1000 l’occasione per avvicinare alle realtà di cura de La Meridiana”.

Quali sono stati i criteri nella scelta dei soggetti  fotografati per questa mostra?

“Ho scelto in base alla liberatoria  dei familiari. Non  ho mai voluto fare casting , lo trovo svilente, per i ricordi della mia infanzia, quando ero in orfanatrofio ci mettevano infila  per farci scegliere dalle copie che volevano  adottare un bambino” .

Cosa è per lei la fotografia?

“La fotografia è la mia vita. Mi definisco un mangiatore di fotografie. Soddisfa  quasi il mio bisogno “fisico” di interagire e di impossessarmi della realtà, di quello che mi circonda…e gli restituisco una vita nuova. Mi piace paragonarmi a un musicista: con la fotografia suono lo spazio e il mosaico è il mio spartito. Suono lo spazio cercando la perfezione e l’armonia dei singoli elementi, delle linee, dei pieni e dei vuoti, dall’inizio alla fine seguendo il mio ritmo. Cerco l’emozione in ogni singolo frammento”.

Il suo primo scatto?

“Avevo nove, forse dieci anni e, con la mia famiglia, andavamo a pranzo alla domenica in un ristorante in Brianza vicino a Erba. Avevo una macchinetta semplice, una AGFA Optima che scattava in 24×36: la mia prima fotografia è stata ai parenti a tavola in quel ristorante. Poi, presa confidenza con quella rudimentale fotocamera, andavo sui cantieri con mio padre, e anche in quelle occasioni scattavo le mie prime foto”.

Qual è stato il momento in cui ha capito che sarebbe diventata la sua professione?

“Sono un geometra mancato e appena diplomato affiancavo mio padre nella sua impresa edile. Andando nei cantieri con lui, osservavo i palazzi avvolti nelle strutture d’acciaio dei ponteggi e mentalmente, anziché contare i livelli dei ponteggi, facevo finta di scattare fotografie e scomponevo bene l’immagine che avevo davanti. Fino ai 35 anni ho fatto il geometra nel cantiere edile del mio padre adottivo, ma ero insoddisfatto, deconcentrato, sentivo il sacro fuoco della fotografia. Partecipavo a tanti concorsi e li vincevo  talvolta con il mio nome  altre con quello di mia mamma Eleonora Vaghi”.  

Passa nel 1983 alla Polaroid…

Il primo ritratto lo feci a mio figlio  con una scatola chiamata collector.  Poi Alan Fidler della Polaroid di Boston mi mise  a disposizione una scatola bianca,  la luce invece di concentrarsi si diffondeva donando alle immagini un effetto molto bello”.

Comincia a usare solo le Polaroid, anche perché può vedere subito il risultato dello scatto senza aspettare lo sviluppo della pellicola e soffrendo di claustrofobia e a con la paura del buio non amava stare al buio nella camera oscura.

“La Polaroid è per me un mezzo straordinario, mi fa stare bene, non ho bisogno di altro per scattare. Con la Polaroid diventa  possibile la presa diretta, istantanea di un attimo di realtà percepita. Lavoro con lo spirito della “zanzara pungente” caro a Henri Cartier-Bresson. Ma al di là delle tecniche che sperimento, alla base di ogni foto c’è sempre uno stato d’animo, una situazione mentale, una sensazione e una situazione che determina un tipo di lavoro piuttosto che un altro. E poi manipolo. Solo manualmente, non ho mai sperimentato e utilizzato la fotografia digitale”.

Un tratto distintivo della sua produzione artistica è la tecnica  a mosaico. Frammenta l’immagine istantanea in una moltitudine di fotogrammi generati da essa, conferendo movimento e nuova emozione alla staticità della fotografia di partenza, fino a crearne un ritratto fatto di tanti tasselli differenti tra loro.  . I mosaici sono immagini dinamiche, esperimenti sulla ripetizione, un’ossessione geometrica e maniacale nei confronti dell’equilibrio compositivo. “Penso spesso a questa mia particolare predisposizione a vedere per griglie, come se il mondo fosse un enorme mosaico, e sono convinto che il mio modo attuale di fotografare risale agli anni passati in  quel brefotrofio, le finestre avevano le inferriate e per 5 anni mi trovavo spesso a guardare dalle grate della finestra il cielo  che si riduceva in mosaico”. Per la mostra Fotografia imperfetta dentro il fragile vivere, Galimberti ha lavorato con due differenti tecniche. Con la prima, è partito da scatti realizzati con una Leica Q3, una macchina mirrorless, e successivamente ha utilizzato una Polaroid Giant Camera 50×60: questa modalità ha permesso di trasferire la Polaroid su carta da disegno a umido, appositamente preparata per trattenere la matrice fotografica. Con la seconda ha usato la fotocamera Polaroid I-2: quattro ritratti sono stati realizzati anche con una lente addizionale appoggiata sulla fotografia stampata dal ritratto originale.

INFORMAZIONI

Fotografia imperfetta dentro il fragile vivere

Opere di Maurizio Galimberti

14 settembre – 1° dicembre 2024

Padiglione d’Arte

Fondazione Luigi Rovati

Corso Venezia, 52, Milano
Telefono 02.38.27.30.01

Orari: da mercoledì a domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00

Ingresso gratuito

Di Cristina Tirinzoni

Giornalista professionista di lungo corso, ha cominciato a scrivere per testate femminili (Donna Moderna, Club 3, Effe, Donna in salute). E’ stata poi per lungo tempo redattore del mensile Vitality e del mensile Psychologies magazine e Cosmopolitan, occupandosi di attualità, cultura, psicologia. Ha pubblicato le raccolte di poesie Come un taglio nel paesaggio (Genesi editore, 2014) e Sia pure il tempo di un istante (Neos edizioni, 2010).

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