Le sale italiane dal 12 settembre ospiteranno il nuovo lavoro della giovane regista britannica dall’immaginazione audace Glass
Una muscolosa ragazza ( bicipiti scolpiti e le vene gonfie e pulsanti) dannatamente sexy fa l’autostop su ciglio di una strada. Indossa pantaloncini vertiginosamente corti, porta in spalla uno zaino con dentro le sue cose. Quando viene rimorchiata e scaricata (dopo aver fatto sesso veloce) in un piccolo centro del New Messico desolato e desolante, illuminato solo dal bagliore freddo delle insegne al neon, Jackie (Katy O’Brain) ha però una meta ben precisa in testa: Las Vegas per i campionati di bodybuilding. E’ la scena iniziale di Love Lies Bleeding (“Amore, bugie e sanguinamento”, ma può anche essere tradotto in “L’amore giace sanguinando”), dal 12 settembre nelle sale italiane, il nuovo molto chiacchierato secondo lungometraggio diretto dalla giovane regista britannica dall’immaginazione audace Rose Glass (classe 1990) che segue il folgorante horror Saint Maud, vincitore del Grand Prix al Festival internazionale del cinema fantastico di Géradmer nel 2020. Sostenuto da una colonna sonora di synth pulsante e vibrante degli anni ’80, composta da Clint Mansell. E dalla splendida fotografia saturata di Ben Ford che si è ispirato alla fotografia dell’olandese Robby Müller su Paris, Texas (1984) di Wim Wenders e Federal Police, Los Angeles (1985) di William Friedkin per creare immagini con sfumature blu e rosse e da neon verdi fluorescenti. Con un cast ispiratissimo: una sempre più brava Kristen Stewart, affiancata dalla sorprendente Katy O’Brian, ex star delle arti marziali (e che sono sicura molti di voi ricorderanno nell’ultima stagione di Z Nation). La chimica tra loro è palpabile.
Incontriamo invece Lou (Kristen Stewart ) per la prima volta nella palestra che gestisce di proprietà del padre, piena di polvere sul pavimento e sudore sulle pareti, intenta a sgorgare con la sua mano guantata un water lercio e intasato e che cerca di schivare le avance amorose della biondina appiccicosa Daisy (Anna Baryshnikov), con la chiara espressione di chi aspetta un cambiamento che spezzi la monotonia alienante della sua vita. Il padre (interpretato da un fantastico Ed Harris con un sogghigno e una parrucca epicamente terribile) con cui da anni non parla (da quando sua madre è misteriosamente scomparsa) è un trafficante d’armi ed è a capo di un’organizzazione criminale locale, e che in combutta con la polizia, riesce sempre a farla franca. Quando Katy arriva nella palestra per allenarsi, è attrazione folle e fatale a prima vista fra le due donne. E accende il film e lo avvia sulla sua strada incendiaria, tra sesso frenetico, muscoli gonfiati da steroidi e un crescendo splatter di sangue, cadaveri arrotolati nel tappeto, intermezzi allucinatori. Padri psicopatici. Uomini tossici e violenti.
Un thriller sporco e sudato, un neo-noir con tinte splatter, al femminile, sfacciatamente tenero e romantico, un body horror, un revenge movie psicologico, un lesbo noir al cardiopalma, un fantasy psichedelico e onirico, un monster-movie volutamente ironico sulla forza femminile (scena cult: quando una Jackie pompata di steroidi si trasforma in un “gigante” con tanto di mutazione nell’ Incredibile Hulk, un omaggio all’attacco di una donna di 50 piedi del 1958 di Nathan Juran). C’è di tutto in questo film e si potrebbe anche compilare un ricco elenco di omaggi, ispirazioni e rimandi (Thelma & Louise di Ridley Scott) senza troppo sforzo ma ci sono anche gli echi da David Cronenberg, passando per Michael Mann e il Paul Verhoeven meno compreso, quello di Showgirl, ma niente a che vedere con Love lies bleedingg di Don DeLillo) ma Rose Glass (che ha scritto la sceneggiatura insieme a Weronika Tofilska) mischia abilmente e carte per fare andare le cose in una direzione diversa e ne esce fuori un film originale, fuori dagli schemi di genere (cinematografici), dimostrando la fondamentale necessità di un’arte libera e irriverente, astenendosi completamente dal giudizio, da qualsivoglia commento morale. Senza tabù.
Un noir sadicamente spassoso, con un sacco di humor nero. In una una scena violenta che produce un cadavere orribilmente mutilato. Lou chiede: “Cosa è successo?”. Jackie risponde: “Ho sistemato le cose”. Anche gli spettatori ancora sconvolti dalle immagini orribili sullo schermo concorderebbero con la valutazione di Jackie. La punizione sembra giusta; sembra morale. Per quanto accadano cose che scivolano nel regno dell’horror puro, nella progressione spietata di azioni di violenza sempre più folli e brutali che fanno saltare in aria le loro vite e il mondo che le circonda, tutto sembra perfettamente coerente. Donne che rispondono con la forza fisica alla violenza maschile. Donne che uccidono uomini. E uomini che se lo meritano. È il punto di non ritorno, da lì non ci si ferma più quando la sorella di Lou Beth (Jena Malone) viene quasi ammazzata di botte dal marito JJ (Dave Franco), il classico yankee bastardo di provincia, spedendola in ospedale. A complicare le cose c’è anche Daisy, l’ex amante gelosa e impicciona di Lou che farebbe di tutto per allontanarla da Jackie.
Tutto già visto in molte storie con protagonisti maschili. E le figure femminili assolutamente centrali, in fondo rispettano pesantemente certi stereotipi maschili, quasi volesse sbatterli in faccia al pubblico, questi stereotipi. Ma il queer, anche se è il perno cui ruota intorno l’intera operazione, passa in secondo piano, il meccanismo è più insidioso e sottile. La regista britannica ha l’arguzia di intrecciare questo discorso con una riflessione sulla degenerazione del culto corporeo. Il corpo è centrale e funzionale alla storia. Corpi nel calore della passione. Corpi mutilati. Il corpo di Jackie è un corpo scultoreo, massiccio, difforme, desueto, mostruoso, che si gonfia per essere ancora più muscolosa e pronta al massimo delle sue possibilità per il suo concorso. Un corpo che in alcune scene del film diventa il motore che accende la rabbia. In effetti, se c’è un’emozione che emerge dalla storia delle protagoniste è la rabbia. La rabbia di vivere, la rabbia di amare. Soprattutto, il desiderio feroce di sentirsi libere. Perché Lou e Jackie, e questo è forse uno dei “messaggi” del film, lottano per la loro libertà. ma attingono ancora all’eredità di questa violenza. Così, Lies ci ricorda giocosamente e grottescamente cosa significhi “diventare cattive”. Sì certo, Rose Glass demolisce e denuncia la cascata di violenza che nasce da un ambiente patriarcale, ma rifugge anche dall’idea che di questi tempi le storie inventate dalle donne devono essere belle e che i personaggi femminili debbano essere moralmente corretti, o positivi. Evviva. È bello che una donna parli in maniera così coraggiosa. L’arte dovrebbe essere questo: sincerità e coraggio. Evviva anche il finale (no spoiler) che riesce a sorprendere attraverso una trovata clamorosa, in cui, per una volta, non sono necessariamente le donne a finire in un burrone con il loro pick up e l’ennesimo cadavere nel bagagliaio. Forse , però, Jackie e Lou avrebbero dovuto andarsene subito dalla città. Senza combinare tutto quel casino.