Per la rassegna Estate al Castello 2024 è andato in scena (il 9 luglio) lo spettacolo, di e con uno strepitoso D’Elia, nei panni del leggendario capitano Achab (il testo teatrale è diventato anche un libro scritto in versi, pubblicato da Edizioni Ares); ideazione scenica e grafica della brava Salvucci
Il racconto di Corrado D’Elia (nel ruolo di drammaturgo, regista, interprete) è trascinante. Un Achab titanico, profetico. Un folle visionario. Un ribelle che come Ulisse si spinge oltre i limiti consentiti.
Vestito di bianco, su un scranno, scalzo, D’Elia quasi fosse uno spirito, l’anima dannata di Achab che torna a narrare ai vivi la propria ossessione, riesce magnificamente a trascinarci a bordo del Pequod, per dare la caccia a Moby Dick, la mostruosa immensa balena bianca che, in un viaggio precedente, gli aveva mozzato una gamba: invincibile, nonostante i mille arpioni nei fianco, a cui il capitano ha giurato vendetta, disposto a sacrificare il suo intero equipaggio e di morire lui stesso pur di riuscire nell’impresa.
Nel Cortile della armi, la Torre del Filarete merlata di luci è come un faro ad illuminare la notte, e iI palco diventa il baleniere Pequod con tre alberi. Sarà come essere in mare, avvolti dai suoni dell’oceano, avvertire gli spruzzi delle onde sul viso e il soffio del vento “nelle notti piene di seduzione, che sembrano donne eleganti in abito di velluto” e giornate fredde e limpide. E il teatro è un luogo dove questo può ancora accadere. La voce dell’istrionico D’Elia ci arpiona come Achab con la balena. In un intenso monologo della durata di ottanta minuti. In un viaggio ostinato, vitale, emozionante, un viaggio fino agli abissi dell’animo umano, alla ricerca oggi più che mai di un senso disperato per la propria vita. “Moby Dick non è una balena, è una ossessione verso l’irraggiungibile. E chiederci cosa sia veramente decisivo nella nostra vita”, dice Corrado D’Elia . “Lo spettacolo si apre con Achab che si dichiara perdente . È questa la riflessione che propongo. il mio racconto inizia celebrando una sconfitta, Quello che alla fine siamo, le nostre ossessioni, un quadri, una donna, un libro, una musica, il mare , la balena, il teatro… siamo serenamente seduti sulle nostre sconfitte, sorridenti in fondo, felici, per essere riusciti a sfiorare l’impossibile, consumati dal fuoco del proprio desiderio di impossibile”.
“Lo spettacolo si apre con Achab che si dichiara perdente. Achab come Prometeo, Ulisse, figure emblematiche che hanno il coraggio di ribellarsi alla propria condizione di finitezza per raggiungere l’impossibile, quel miraggio di verità e di grandezza che l’uomo insegue da sempre e che non potrà mai afferrare appieno ma che diventa la molla per andare avanti”. D’Elia ha voluto dar voce a quel desiderio, a quella ricerca di assoluto, e del capolavoro di Herman Melville (pubblicato nel 1851,oltre 600 pagine) il suo Moby Dick assume la tragicità di un testo shakespeariano e del mistero che regge ogni destino, quell’ oscuro desiderio struggimento e che ci spinge a lottare e ad andare avanti anche quando ogni senso sembra smarrito, ogni sforzo pare senza esito. Ci sarà un momento in cui Achab rivolgendosi al cielo si chiede: “Che ci faccio io qui? Sono quelle grandi domande della vita che aprono dentro di noi spazi immensi e voragini, destinate a non avere alcuna risposta ma che è giusto e necessario porsi. Lui sulla sua nave, io in teatro, ci ritroviamo al cospetto di un infinito che affascina e spaventa, ben rappresentato da una nave in mezzo al mare che viaggia tra il cielo stellato e i più cupi abissi”, racconta D’Elia.
Un senso mistico e profondo di solitudine pervade il protagonista, rimbalzandone sulla platea . La solitudine è abissale . Solo è l’attore in scena come solo è il capitano Achab, nello sterminato oceano e non può condividere con alcuno il significato della sua caccia alla balena bianca. Corrado d’Elia. Achab e Moby Dick sono la stessa cosa. Il teatro è questa l’ ossessione e che vive D’Elia. Un’ossessione che affonda le radici nell’infanzia quando complice un libro che gli ha regalato suo padre su Vittorio Gassman, il piccolo Corrado incomincia fantasticare un futuro da attore e lo stesso Gassman aveva portato in scena un travolgente Ulisse e la balena bianca, nel 1993 con un celebre allestimento scenico (progettato da Renzo Piano). L’intensa performance di D’Elia è resa ancora più emozionante dalle musica secentesca: una liturgia che procede a ondate, un esordio solenne, un andante che ricorda il viaggiare, poi un ritmo assediante, come un’ossessione rapinosa che non da tregua e ci fa affondare ancora di più negli abissi, nella spiritualità. Il brano è L’Ave Maria di Giulio Cacini nella versione rielaborata dagli Era, gruppo fondato a metà degli ani Novanta dal musicista francese Eric Lévi.
La lotta assume toni epici , in un crescendo di concitazione e drammaticità quando Moby Dick si palesa con uno spruzzo d’argento che si leva alto con una forza inaspettata. Lo scontro si svolge in una tempesta di urla, acqua, assi di legno che volano e colpi di dorso e di coda violentissimi Achab è sulla scialuppa con gli altri ramponieri, pronto a giocarsi la sua mortale partita. La avvista, la insegue, tira il suo rampone che affonda nella carne della balena, conficcandosi. Riesce a ferire a morte Moby Dick, ma resta avvinghiato nel cordame dei vari ramponi ed è trascinato nell’abisso. Poco dopo scompare anche il Pequod. Ed è la fine, il mare si richiude. Il cerchio che inghiottì Ulisse qui è voragine che divora Achab, la sua ossessione totalizzante, il suo equipaggio, in un indistinto abbraccio mortale con la Balena bianca. “Poi il grande sudario del mare riprese a rollare piano piano piano come già rollava cinquemila anni fa”. Uccidere la balena bianca oppure oltrepassare le Colonne d’Ercole. Due metafore per lo stesso scopo: sfidare l’ignoto, l’insondabile, dare un senso alla propria vita.