Comunardo Niccolai

Si è spento Niccolai, stopper del Cagliari campione d’Italia 1970. Aveva 77 anni. Il suo nome originale richiamava la Comune, il potere rivoluzionario che si installò nella città di Parigi nel 1871. Uomo di una serietà e lealtà proverbiale, divenne famoso anche per i suoi autogol

Dove guardava Niccolai quando lanciava la crapa, pronta a spelarsi già a ventiquattr’anni, su un pallone che poi gonfiava la propria rete? L’emblematico faccia a faccia, lui poggiato al palo della porta, Enrico Albertosi a braccia aperte a imprecare, è rimasto immortalato in un’immagine che supera nella sconsolatezza i versi di Umberto Saba sul portiere “caduto alla difesa ultima vana”. L’estremo difensore cagliaritano non “cela la faccia contro terra” indirizza un sicuro improperio al compagno che ne aveva vanificato l’uscita esibendosi nel più celebrato dei suoi autogoal. Accadeva contro la Juventus, una pericolosa concorrente per lo scudetto del 1970 che, nonostante quello e altri inciampi, il Cagliari Calcio si cucì sulla maglia. Era goffo Niccolai? Talvolta sì, ma per eccesso di zelo difensivo, lui che era al centro dell’area e doveva spazzarla, come insegnava più il calcio d’una volta che quello del filosofo della panchina Manlio Scopigno, fumatore incallito al pari di certi suoi calciatori. Un aneddoto lo vuole, da poco giunto in società, perlustrare il luogo del ritiro e trovarvi gli atleti infoiati in un pokerino con sigarette e whisky sui letti. ”Dispiace se fumo?”, disse il mister, colpendoli a tal punto che tutti rientrarono nelle stanze e nei ranghi senza trasgredire.

Il Cagliari campione d’Italia. In piedi da sinistra: Nené, Albertosi, Domenghini, Tomasini, Niccolai, Riva. accosciati da sinistra: Cera (capitano), Gori, Mancin, Martiradonna, Greatti

Poi, non è un segreto, qualche sigaretta di troppo non mancava al cannoniere di quella squadra, lui che l’aerobìa la distribuiva solo in quindici metri, ma per fare in quel fazzoletto cose che gli umani sugli spalti difficilmente avrebbero rivisto. In quel Cagliari del miracolo c’erano campioni come Gigi Riva, Angelo Domenghini, Pierluigi Cera, Claudio Olinto de Carvalho in arte Nené, e buoni gregari – Mario Martiradonna, Giuseppe Tomasini e appunto Niccolai che stupiva per certi improvvidi, autolesionistici passi e per il nome. Comunardo. Uno della Comune, prima del comunismo stesso. E’ grazie a quel nome che taluni ragazzini s’infilarono sin dalla scuola media in un pezzo di Storia, celata pure negli studi accademici. Sicuramente a vergogna delle stragi conseguenti. Sempre i racconti, stavolta familiari, dicono che il babbo Niccolai, Lorenzo, sportivo anch’egli, portiere tutto fegato e cuore a Livorno, la città del Teatro Goldoni e della nota scissione comunista di Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci, per amore antifascista avesse voluto identificare il figliolo con uno di quei nomi dell’epica ideologica, caduti poi in disuso con le ventate del boom economico, quando il consumismo aveva definitivamente scalzato il comunismo.

Comunardo Niccolai contro Pietro Anastasi (Juventus)

A quel punto Comunardo era cresciuto, s’era gettato nella mischia pallonara nella nativa Toscana, giovanili del Montecatini per poi sbarcare nell’isola, Torres e dal 1964 Cagliari, che voleva anche dire il massimo campionato. Sempre da difensore, sempre a centro area, con 174 centimetri dignitosi all’epoca per uno stopper. Calciatore normale, nonostante il primato della stagione 1969-70 e addirittura una convocazione in Nazionale, in quell’annata d’oro segnata dai Mondiali in Messico che fecero sognare i tifosi di tutt’Italia. Niccolai si fermò all’esordio, bloccato da un infortunio dopo mezz’oretta di partita. I superstiziosi tiravano un sospiro di sollievo, non l’Albertosi portiere che dall’isola era passato a difendere la rete azzurra, e trovò nell’incertezza di Poletti l’ennesima beffa sotto porta che poteva inceppare la Storia. Non accadde. Nella memorialistica resta l’Italia-Germania 4-3.

Nelle personali memorie, in virtù proprio del nome Comunardo, restano le vicende d’un secolo prima. Le fervide giornate del 18 marzo (1871) all’Hôtel de Ville parigino che accoglie gli insorti – i comunardi – che abolivano l’esercito e armavano il popolo, bloccavano gli sfratti, separavano lo Stato dalla Chiesa (l’aveva già fatto la rivoluzione dell’89, ma erano giunti Napoleone, il Congresso di Vienna e Napoleone III), creavano un’istruzione laica e gratuita, e cooperative operaie e camere sindacali femminili. Ma presto si profilavano di cannoni del maresciallo Patrice Mac-Mahon a spezzare le ultime resistenze popolari di Belleville e del cimitero di Père-Lachaise, monumentale già allora con la tomba, fra gli altri, di Honoré Balzac. All’aristocrazia e ai militari assetati di sangue non bastava la disfatta della Comune, cercavano vendetta e continuarono per settimane a fucilare comunardi ribelli. A migliaia. La Comune di Parigi “governo della classe operaia, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro”, dice Karl Marx l’avremmo incontrata negli studi storici, eppure Niccolai, il calciatore dell’autogoal segnato da quel nome che da oggi non c’è più, ci apriva gli occhi quand’eravamo poco più che bambini.

articolo pubblicato su    http://enricocampofreda.blogspot.it

Di Enrico Campofreda

Giornalista. Ha scritto per Paese Sera, Il Messaggero, Corriere della Sera, Il Giornale, La Gazzetta dello Sport, Il Corriere dello Sport, Il Manifesto, Terra. Attualmente scrive di politica mediorientale per il mensile Confronti, per alcuni quotidiani online e sul blog http://enricocampofreda.blogspot.it/ Publicazioni: • L’urlo e il sorriso, 2007 • Hépou moi, 2010 • Diario di una primavera incompiuta, 2012 • Afghanistan fuori dall’Afghanistan, 2013 • Leggeri e pungenti, 2017 • Bitume, 2020 • Corazón andino, 2020 • Il ragazzo dai sali d’argento, 2021 • Pane, olio, vino e sale, 2022

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