La Siria è sempre più nel baratro. Rastrellamenti, esecuzioni sommarie e vendette tribali stanno trasformando le province costiere di Latakia e Tartus in un campo di battaglia
Prevale la penna ma rispunta il fucile. L’ultima settimana della Siria di al-Sharaa è stata un intreccio di futuro e passato che ha portato il governo islamista di Damasco a proseguire la via dell’annunciata ricomposizione del Paese con la mano tesa e il pugno duro. Durissimo. L’accordo firmato direttamente dal presidente ad interim col responsabile delle milizie siriano-democratiche, il kurdo Mazlum Kobane e quello stipulato con la comunità drusa, tengono fede al passo promesso tre mesi fa dall’ex leader del gruppo Tahrir al-Sham quando entrava nei palazzi che furono degli Asad. Ricomporre una nazione che è multi etnica e multi confessionale per poterla rilanciare in un quadro di sicurezza e pacificazione interna. Questo quadro beato e fiducioso stride coi tre giorni di fuoco e sangue vissuti sulla costa occidentale fra Latakia e Tartus. I morti, anche civili, superano il migliaio, appartengono a famiglie alawite bersaglio dei reparti dell’attuale governo che avrebbe così vendicato l’assalto di giovedì scorso a un ‘nucleo di sicurezza’ da parte di presunti rivoltosi.

Questi ribelli altro non sono che appartenenti al regime di Bashar che, come ha dichiarato in un’intervista a La Repubblica, il vicario apostolico di Aleppo Hanna Jallouf, rispondevano a un tentativo di colpo di mano di Maher Asad. Dall’Iraq l’intransigente fratello dirigeva un complotto di ciò che resta d’un esercito dissolto. Volponi come il generale Ghiath Dallah sapevano cosa fare, questa è la tesi, creare un ‘Comitato per la liberazione della Siria’ nei luoghi dove risiede la comunità alawita fedele agli Asad. Vera o ipotetica questa panoramica ha avuto il tragico epilogo di tre giorni di repressione violenta abbattutasi su chi c’entrava e chi no. Accuse agli armati di al-Sharaa riferiscono di esecuzioni a sangue freddo di donne e minori, una carneficina. Ma come negli anni della “macelleria” ogni parte sottolinea quel che gli interessa. E dunque gli attuali ribelli (che fino a novembre erano lealisti) avevano sequestrato una pattuglia e sgozzato gli appartenenti cavandogli gli occhi.

Quindi la furia reattiva. A far stragi non c’erano solo i manipoli di al-Sharaa ma jihadisti uiguri tuttora presenti sul territorio. Nel parapiglia, fra le ronde sanguinarie son finiti anche cristiani ch’erano per via, un lago di sangue che non fa bene al presunto desiderio di riconciliazione. Come placare in quei luoghi l’odio plurimillenario fra sunniti e alawiti è un’incognita enorme. Il cambio di regime quasi senza colpo ferire del dicembre scorso aveva dell’irreale; certo tutto avveniva nel cimitero diffuso che in quattordici anni aveva sotterrato mezzo milione di cadaveri. E dopo tanta morte stupisce come l’istinto sanguinario persista. Ma c’è chi sostiene che questi giorni siano stati un colpo di coda proprio di quegli elementi del clan Asad che osservano il Paese solo con gli occhi assetati della guerra.

Girano notizie che adesso anche Maher sia riparato in Russia. E sulla Siria che al-Sharaa, abbandonata a suo dire la jihad, vuole rasserenare riportando in patria la diaspora dei concittadini, cercando fondi per una vita normale arricchita di strade, case, scuole, ospedali per tutti, kurdi, drusi e alawiti compresi, pesa l’ombra di chi fomentava i conflitti. Pesi massimi e medi, globali e regionali. Perciò serviranno nuovi tavoli dove dibattere e concordare accordi. Se i buoni uffici verso i drusi del sud-ovest piacciono a Israele che s’era già elevato a loro paladino, avanzando oltremodo sulle alture del Golan occupato da decenni, l’autonomia del nord-est pattuita coi kurdi siriano-democratici può scontentare il governo turco. Ankara sui confini meridionali non vuole reparti armati, ora che con Abdullah Öcalan si parla di addio alle armi, le misure dovranno essere diverse. Il rebus per un al-Sharaa in giacca e cravatta è assai più complicato dei giorni della mimetica che molti suoi fedelissimi non vogliono dismettere.
articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it