Il leader del Pkk, in prigione dal 1999, riuscì ad evitare la condanna a morte perché nel 2002 la Turchia abolì la pena capitale. D’Alema si oppose alla sua estradizione quando arrivò in Italia, senza però garantirgli l’asilo politico, provocandone la cattura all’aeroporto di Nairobi. Una storia dolorosa di una vita fatta di lotte, sangue e tragedie
La causa kurda, la lotta anche sanguinosa subìta e offerta negli ultimi quarant’anni e Abdullah Öcalan sono un tutt’uno. Lo sono nell’immaginario di quel popolo, diviso fra quattro Stati e una copiosa diaspora in vari Paesi, e nell’informazione che ne segue non solo fra i militanti del Pkk. Gli ultimi ventisei anni, il leader fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan li ha trascorsi in galera nel isola-prigione di Imrali, nel Mar di Marmara. Come ci sia finito costituisce un ulteriore capitolo del periglioso percorso di questo capo bollato di terrorismo. Per la cronaca ormai diventata storia, la sua fuoriuscita dalla Siria nel 1998 per evitare una possibile cattura da parte del Mit turco e la fuga in Europa, coinvolse direttamente chi voleva prestargli soccorso: il governo presieduto da Massimo D’Alema. Che s’oppose alla richiesta d’estradizione avanzata da Ankara quando Öcalan era giunto nel nostro territorio, ma non gli garantì l’asilo politico, provocandone la cattura all’aeroporto di Nairobi, dov’era stato spedito dopo due mesi di contestata permanenza in Italia. Il rischio di finire appeso a una corda venne meno nel 2002, quando la Turchia abolì la pena capitale, e per lui e altri imprigionati con l’accusa di terrorismo la pena fu l’ergastolo. In quello ch’era stato lo scontro più acuto fra miliziani del Pkk e l’esercito turco era già passato il quindicennio terribile, avviato nel 1984 col primo attacco a una gendarmeria di Siirt e un crescendo di assalti e repressione, capaci di alimentare una generalizzata spirale di sangue. In quegli anni interi villaggi kurdi venivano bruciati, talvolta con gli abitanti dentro, una strisciante pulizia etnica deportava migliaia di persone. Per contro civili turchi sospettati di collaborare coi reparti polizieschi diventavano bersagli alla stregua dei militari. Egualmente gruppi paramilitari della destra turca agivano contro la comunità kurda. E giù arresti di massa, prigionìa con torture anche per chi non veniva classificato militante del Pkk. La statistica delle morte contò oltre quarantamila vittime. I kurdi erano i più.

Nato nel 1978 il Pkk sceglieva l’azione armata non solo perché ideologicamente vicino a un tardo marxismo-leninismo e poiché emulava la lotta di altre etnìe senza patria, a cominciare dai palestinesi oppressi da Israele. Lo faceva in quanto considerava inefficaci alla creazione d’una nazione kurda sia le antiche ribellioni nello Stato kemalista, sia il successivo approccio pacifico e democratico della comunità. Il Pkk contestava pure l’approccio conservatore e tribale di gruppi come il Partito Democratico del Kurdistan, sorto nel Secondo dopoguerra attorno al clan Barzani. In realtà Apo, lo zio, come Öcalan veniva chiamato anche quando i suoi baffoni, ingrigiti con gli anni, erano nerissimi, inizia a elaborare un progetto differente per la frazione kurda più numerosa, gli oltre quindici milioni che vivono nel levante meridionale anatolico, già dopo qualche tempo dalla sua prigionìa. Taluni analisti sostengono sotto la spinta delle letture del filosofo anarchico newyorkese Murray Bookchin, diventato celebre per il suo ‘comunalismo’, un municipalismo libertario che per Öcalan diventa quel ‘confederalismo’ su cui tanto scrive, ispirando un’idea di democrazia diretta, economia solidale ecologica, emancipazione femminile basamento dell’utopia del Rojava, l’area di confine turco-siriano. Che comunque s’afferma e si rafforza proprio nei gorghi della battaglia del conflitto siriano in corso, nella liberazione del cantone di Kobanê dalle milizie nere dell’Isis, nella difesa del cantone fratello di Afrin. In Turchia l’ispirazione ‘confederale’ stimola soprattutto le sigle con cui i kurdi si presentano alle elezioni (Bdp, Hdp fino all’attuale Dem) costituendo una concreta presenza e diventando nel 2015 il terzo gruppo parlamentare dopo Akp e Chp. Ma subendo puntualmente persecuzioni e punizioni con l’accusa d’essere una costola del Pkk, dunque “terroristi”. Il caso di Selahattin Demirtaş, co-presidente di questo partito, in galera da nove anni assieme a decine di suoi colleghi parlamentari, è l’emblema di come la Turchia chiuda gli spazi alla politica kurda. Armata e non.

Nel frattempo in Rojava si spara. Prima sui miliziani dello Stato Islamico, quindi, e fino a poco tempo fa, sui militari turchi che vogliono occupare quel territorio per evitare che l’esperienza d’ispirazione ‘confederale’ prosegua. Mentre il Pkk o chi per lui, come i dissidenti ispirati ai simboli del falco e della libertà, lanciano attentati a singhiozzo in terra turca attirandosi l’odio della maggioranza dei partiti e della popolazione. Ora ch’è risalita in cronaca la richiesta di abbandonare le armi riproposta dal grande recluso, l’aveva già fatto fra il 2012 e il 2015, esponenti del partito come Cemil Bayık hanno storto il naso. Uno come lui non prende in esame neppure l’ipotesi, del resto è considerato un durissimo in odore di quel militarismo spinto che ha caratterizzato tendenze dei gruppi armati di varie epoche, nazionalità e latitudini. I suoi detrattori affermano che abbia risolto con le armi anche diatribe interne con compagni di partito. Ma fra le dicerie lo stesso zio Apo vanta trascorsi di autoritarismo e soffocamento del dissenso a parole e coi fatti. Altre epoche, altre tensioni, di periodi di guerra aperta, quella che la Turchia attuale non sembra mostrare al suo interno, sebbene siano vive le sferzanti repressioni dell’ultimo decennio. Fra chi comanda e ispira l’oggi e il domani kurdo c’è divergenza non solo attorno alla questione dell’abbandono delle armi. Un fuoriuscito da tempo dal Pkk come Hüseyin Topgider, eppure sempre ascoltato perché fu fondatore del partito con Öcalan e Cemîl Bayik qualche mese fa ha messo nero su bianco la sua idea di futuro: “Con i loro 550.000 chilometri quadrati di territorio, 50 milioni di abitanti, un’organizzazione in continuo sviluppo e la possibilità di connettersi col mondo, i kurdi sono la società più aperta alla laicità e alla democrazia in Medioriente. Sono l’unica società che ha le caratteristiche che il mondo civilizzato desidera per l’equilibrio e la stabilità regionale contro le politiche espansionistiche e conflittuali di Turchia e Iran nella regione. Sono in una posizione chiave in un momento in cui la regione ha un disperato bisogno di ricostruzione e questa posizione non viene più ignorata”. Nel rimescolamento regionale lui crede tuttora possibile quel sogno di nazione kurda vanificato da oltre un secolo. Come se Ankara, Damasco, Teheran, Baghdad i loro governi e confini non esistessero.
articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it