L’attrice milanese Della Rosa, che sta attraversando un periodo professionale molto impegnativo e pieno di riconoscimenti, in un’intervista prova a farci capire l’importanza che il teatro ha nella sua vita
“Per me recitare è vita all’ennesima potenza. Un’avventura umana, appassionante. È il mondo in cui io trovo linfa, necessità e felicità. Non potrei immaginarmi altrove”. L’attrice milanese Anna Della Rosa sta vivendo un periodo davvero intenso e ricco di soddisfazioni. Da pochissimo vincitrice del 37° Premio Duse, il prestigioso riconoscimento dedicato alla migliore attrice teatrale della stagione 2023/24). Oltre al Premio della critica 2024, per il suo lavoro con Sandro Lombardi sui testi di Giovanni Testori: Erodiàs e Mater strangosciàs. Adesso è impegnata in tournée proprio con Antonio e Cleopatra fino al 21 marzo: Prato, Cesena, Roma, Ancona, Messina, Palermo Forlì. Poi il tempo di rifare le valige (“che invenzione geniale il trolley”!), il 26 marzo riparte (Volterra, Ancona, Venaria reale Firenze ) portando in scena Accabador, tratto dal romanzo di Michela Murgia per la regia di Veronica Cruciani.

Dove tieni tutti i premi ricevuti, a cominciare dal primo come migliore attrice emergente per La trilogia della villeggiatura con la regia di Toni Servillo?
In soggiorno, a vista su uno scaffale. Un tempo per una sorta di pudore li tenevo nascosti, oggi invece penso che sia bello esporli e averli costantemente sotto gli occhi. Con grande gioia e orgoglio. Con senso di gratitudine.
Dice la motivazione del Premio della critica 2024: “… per una dedizione sacerdotale e rituale all’arte della scena e al mistero della parola incarnata”.
Sono d’accordo, e non lo dico per presunzione (ride). La Sacralità appartiene per diritto di nascita al Teatro. Un luogo sacro perché ci mette in contatto con quanto ci è di più misterioso e inafferrabile dentro l’essere umano. er rendere “sacro” il teatro è necessario “sacrificarsi”, donare e donarsi a lui con devozione. I devoti sono persone votate a qualcosa. L’impegno, la cura, lo studio, la fatica sono indispensabili. Come un contadino che ogni giorno ara, semina, miete il suo campo.
Quanto reciti nella vita reale?
Non più degli altri (ride). Cerco di tirar fuori, con le persone, quello che sono davvero. E poi non recito neppure sul palcoscenico, cerco semmai di veicolare in maniera onesta dei sentimenti autentici. E’ il paradosso del teatro: dire la verità nella finzione.
Come ti prepari su un testo o un personaggio?
E’ un’alchimia e un lavoro d’ascolto profondo. di quello che c’è nel testo, e cioè dell’opera e della scrittura. Questa è già un’azione potentissima, è già interpretazione. Le parole sono la mia guida, sono loro che comandano il ritmo. Per sentire il personaggio è necessario fidarsi anche della parte di sé più istintiva, sensoriale e lasciare che si manifesti. Non è tanto pensare, architettare ma, al contrario, non pensare, non architettare, lasciare che succeda quello che, momento per momento, pagina dopo pagina, succede. E non tutto è spiegabile, non tutto è quantificabile.
Il camerino è la linea di passaggio dalla vita reale alla rappresentazione, assorbe e riflette la concentrazione e la tensione dell’attore prima di andare in scena, assiste alla metamorfosi del trucco e della vestizione. Hai un rituale?
Cerco di arrivare in “anticipo”. Scaldo ancora un po’ la voce, faccio qualche esercizio di yoga o mi sdraio semplicemente per terra ad occhi chiusi. Mi preparo una tisana con il mio fornellino portatile che mi dà la sensazione di “cuccia”. Poi stendo la tovaglietta ricamata con le ciliegie rosse che mi ha regalato tanti anni fa la nonna, apparecchio i mie trucchi e inizio a truccarmi il viso.
Sei di nuovo in tournée con Antonio e Cleopatra?
E’ stato il mio primo Shakespeare! Ne amo la libertà, la follia! La regia (di Valter Malosti, suo compagno d’arte e di vita, che ha il ruolo di Antonio, ndr) tira fuori bene questa poliedricità: ora è tragica, ora comica; ora seduttrice, ora bambina innamorata, ora tenera, ora tiranna spietata… Una donna all’ennesima potenza, che rende ogni sentimento un’esplosione. Impersonare con Valter questi due magnifici, esaltanti pazzi ogni sera è una felicità.
La battuta che hai più nel cuore?
Cleopatra è davanti allo specchio per il trucco nel camerino di un’attrice e prende il coraggio di uccidersi per non cadere schiava di Cesare Ottaviano. “Vengo o mio sposo. provi ora il mio coraggio che quel nome di sposa è mio diritto. Sono fuoco ed aria. I miei altri elementi li lascio alla vita più bassa e infera. Non ho più niente della donna in me, ora dalla testa ai piedi sono ferma come il marmo”. Nella potenza dei versi di William Shakespeare c’è tutta la fierezza, l’amore di una donna che non si piega e si uccide come gesto estremo di libertà.

Cosa ti ha insegnato Cleopatra?
A dare più spazio al fuoco, qualcosa che avevo sicuramente di mio, però non era ancora stato espresso in maniera piena. A trovare dentro di me una mia voce più profonda, anche più sensuale che ha arricchito la gamma dei toni espressivi. Si è rivelato una bella scoperta.
Ti scateni anche nella danza. E monti con destrezza a cavallo
Ero un’amazzone brava, benché non gareggiassi. Il cavallo è una creatura che mi dà gioia.
Parliamo di Orlando, di cui sei protagonista. cha ha debuttato in prima nazionale al Teatro Astra TPE di Torino, lo scorso dicembre, in attesa di nuove date, lo speriamo davvero. Cosa ti ha stimolato nel portarlo in scena? Riesci a rendere la vertigine della scrittura di Virginia Woolf attraverso un’esperienza scenica intensa e coinvolgente. Si coglie che sei in stato di affinità elettiva con il testo.
Quando Andrea De Rosa, mi ha proposto l’Orlando, ho detto: “Sì. Lo faccio”, qualunque cosa sarebbe stata. Avevo letto il romanzo della Woolf molti anni fa e poi chissà come- le strane coincidenze della vita. l ‘avevo ripreso in mano un annetto fa. E l”immaginario del film girato da Sally Potter con Tilda Swinton, premiata con Leone d’oro come miglior attrice straniera a Venezia nel 1993, resta ancora a distanza di anni di grande fascinazione. A conquistarmi definitivamente è stata l’intuizione registica di intrecciare il romanzo Orlando con le lettere delle grande scrittrice indirizzate all’amata Vita Sackville-West e raccolte in “Scrivi sempre a mezzanotte”. Lo spettacolo esplora il flusso profondo del suo processo creativo e della passione amorosa che lo ha ispirato. Non c’è una netta separazione tra le parole di Woolf e quelle di Orlando romanzo, che Virginia ha dedicato a Vita. L’una scivola nell’altra senza soluzione di continuità. E disvela.
Gli spettatori ti trovano ai piedi di una quercia su un tappeto di erba (sintetica). Un monologo di sessanta minuti dal ritmo incalzante a cui dai corpo e voce passando da un registro stilistico all’altro a tratti ironico, drammatico, con la forza e la fierezza di un desiderio smanioso di Vita, di una fame di gioia e di vita, che travolge, indagando un tema complesso come quello dell’identità. Con inesauribile energia fisica, percorrendo il palcoscenico da un angolo all’altro, in preda al fervore creativo e alla passione amorosa, per poi abbandonarti stremata a terra o ai piedi dell’albero. Dove trovi tutta quella energia?
Sì, richiede grande allenamento di fiato e concentrazione; mi sono dovuta allenare, come si fa nelle gare sportive (ride). A casa faccio un po’ di yoga e scaldo la voce con esercizi performati rafforzati dall’incontro con Francesca Della Monica. E poi quello albero che domina la scenografia, mi metteva una gran voglia di correre Ma a dirmi tutta quella energia è la felicità che mi da questo testo stupendo. ” Vita mi manchi e basta, in un modo piuttosto semplice, disperato, umano. Mi manchi più di quanto potessi credere”. Non è bello finire così una lettera?
Qual è il segreto, se c’è, per rimanere fino in fondo sempre se stessi pur affrontando molti personaggi?
Mi sono innamorata del teatro proprio perché mi offre la possibilità di sperimentare qualcosa che non sia l’io rigido dentro il quale ci rinchiudiamo. La fissità non mi appartiene. Penso all’identità come a un processo dinamico, in continua evoluzione, plasmato dalle esperienze individuali, dalle interazioni sociali e dalle sfide culturali. Spesso restiamo invece aggrappati a quanto pensiamo di essere. Ci rassicura il pensiero di possedere contorni ben nitidi e marcati, un pezzo “pezzo unico”, sempre uguale a se stesso, solido, permanente, stabile. Invece in verità siamo esseri multiformi. Per me è importante cercare di essere fedele a me stessa, che significa saper leggere cosa cosa provo e desidero, e agire in conformità con quanto sento e penso. In altre parole essere autentici. È quello che accade in Orlando che con l’identità gioca di continuo.
Il teatro lo avevano dato per morto, poi che è successo che i teatri sono sempre pieni, anche di tanti giovani?
Io ci vado al cinema, e continuo a pensare che sia importante. Ma il teatro a casa non lo vedi su Netflix. Ci devi andare per forza, in qualsiasi posto lo si faccia. E si può fare ovunque. Ecco, il teatro è questo: stare insieme e possibilmente riflettere. Anche solo per la sera dello spettacolo. È un incontro, vero, unico e irripetibile fra esseri umani, senza schermi, algoritmi, barriere. Per questo si continuerà a fare sempre, ancora oggi, nell’epoca dei social e dell’Intelligenza Artificiale.