Al Jolani-Sharaa, sin dal primo discorso ha rassicurato i concittadini sul ruolo del gruppo che rappresenta e sulla sua stessa persona che non accentrerà potere. C’è incertezza, ma solo il fatto di essere usciti da un incubo di sangue e violenza basta per vedere con più ottimismo il futuro
Dopo lo stupore per l’avanzata lampo del fronte jihadista, la conquista quasi incruenta non tanto di Aleppo e Hama ma della stessa Damasco; le rassicurazioni dell’ex leader qaedista Abu Muhammad al-Jolani convertito a un armatismo senza armi con tanto di mutazione anagrafica in Ahmed al-Sharaa (peraltro suo nome d’origine); la rivelazione dell’orrore di Sednaya che sotto gli Asad non era possibile mostrare, se ne narravano gli effetti sadici negati dai lealisti e dissimulati dagli alleati, giunge il giorno della festa ufficiale. Con migliaia di famiglie per via, fuochi stavolta gioiosi d’artificio, volti di bimbi non atterriti dai gas che facevano vomitare materia gialla ma distesi e ridenti fra guance colorate col nuovo vessillo nazionale e il desiderio di vivere. Tanto è ancora incerto, a cominciare dagli aiuti finora inesistenti e che gli incontri internazionali iniziano a valutare con gli immancabili potentati locali, dalla Turchia alle petromonarchie in prima fila. Al Jolani-Sharaa, sin dal primo discorso pronunciato nella grande Moschea degli Omayyidi rassicurava i concittadini sul ruolo del gruppo che rappresenta (Hayat Tahrir al Sham) e sulla sua stessa persona che non accentrerà potere. Per dimostrarlo ha nominato come reggente e primo ministro a interim, l’ingegnere Mohammad al-Bashir, tranquillizzante anch’egli quando dice “Garantiremo i diritti di tutte le comunità, i profughi possono tornare”. Chi all’estero stava peggio, soprattutto coloro rimasti per anni sotto le tende, hanno iniziato a farlo; tanti siriani sistemati in Germania e ormai radicati ci pensano su, solo l’attuale crisi economica tedesca che ne sfavorisse occupazione e futuro può convincerli a ricredersi. Ma molte voci nelle interviste di questi giorni colgono l’attimo dell’entusiasmo, dell’uscita dall’incubo d’una sanguinaria satrapìa durata oltre mezzo secolo, vogliono credere nell’inclusività e nel patriottismo di chi sostiene di voler ricostruire una nazione per ogni fede e ogni etnìa. Credere nella moderazione d’un ex qaedista è un azzardo, però è quanto offre l’orizzonte odierno che dovrebbe durare un po’. Chi dall’interno festeggia o chi rientra dall’estero ha presente i giochi diplomatici palesi e oscuri che scrivono o suggeriscono le trasformazioni in atto.
Su tutti giganteggia un nome che segna da venticinque anni cronaca e politica in Anatolia e nel Medioriente: Recep Tayyip Erdoğan. Non è un segreto che dall’alto dell’incarico che ricopre e tramite il partito turco di maggioranza (Akp) abbia sostenuto e finanziato varie formazioni islamiste attive in Siria, comprese quelle del fondamentalismo da cui proviene la stessa Hayat Tahrir al Sham. Ma la diplomazia all’opera in questa fase, che a lungo ha eluso il proprio ruolo o più cinicamente non ha voluto attuarlo preferendogli l’altra faccia dell’incontro delle parole che è lo scontro delle armi – e che armi, cloro e fosforo bianco, come altrove certo ma in maniera bastarda – cerca di recuperare tempo e spazio. O promette di farlo. Il presidente turco afferma: “Siamo alla vigilia d’una nuova era, in mezzo a rotture nella nostra regione e nel mondo. Mentre cerchiamo di risolvere i problemi attuali, dobbiamo dimostrare la volontà di valutare nuove opportunità“. Nell’agenda presidenziali due sono le priorità: sicurezza dei confini contro l’anomalia kurda e malumori nazionali per la corposa presenza di rifugiati. Su quest’ultimi in un recente intervento Erdoğan ha detto: “Se sono muhajirun (emigranti), questa nazione è l’ansar (aiutante). Non espelleremo mai il muhajirun da questo Paese. Li sosterremo sempre“. “Grazie a Dio, è successo quello che abbiamo detto. Stanno tornando con sacchi e valigie. Quelli che erano pazienti hanno ottenuto la vittoria“. Insomma le novità interne al territorio siriano, l’auspicabile pacificazione riporterà a casa almeno una parte dei quasi quattro milioni dei fuggiaschi dal regime e dalla conseguente ‘macelleria’ che avevano trovato riparo in Turchia. Coloro che hanno perso casa e averi per i feroci bombardamenti degli anni scorsi potrebbero trovare un futuro nel nord del Paese. E’ il desiderio maggiore di Ankara per tamponare ciò che considera il pericoloso tarlo del Rojava, l’amministrazione autonoma kurda autodifesa dalle milizie delle Unità di Protezione Popolare (Ypg) considerate una costola del Pkk e dunque un nemico giurato. L’esercito turco già dal 2019 è presente nelle aree occidentali in cui ha creato una fascia di protezione al suo confine, col benestare dei nuovi padroni di Damasco punterebbe a far sloggiare i kurdi dall’enclave di Kobanê. Il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan ha annunciato che da oggi la propria ambasciata riapre i battenti nella capitale siriana, le relazioni con al-Bashir e al-Sharaa sono cordiali, è facile che la voglia di cancellare gli ultimi presidi kurdi sul confine sarà attuata presto.
articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it
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