Al Teatro Litta di Milano, fino al 15 dicembre, va in scena una rilettura della figura mitologica come simbolo di donna contemporanea
Le donne del mito non sono solo madri, mogli devote e silenziose. Sono anche creature della dismisura, che hanno osato oltrepassare i limiti in cui la condizione di donna le confinava nella polis maschile per conquistare uno spazio di libertà in cui essere pienamente se stesse. Figure femminili emblematiche, come Medea, Elettra, Clitemnestra, Circe, confinate nella maledizione e che oggi vengono ‘riabilitate’ da una narrazione diversa che rovescia la lettura tradizionale e continuano ad interrogarci, a suscitare suggestioni, ad evidenziare questioni ancora vive nella nostra contemporaneità. Circe, la divina Circe, figlia del Sole e della ninfa Perseide, la maga che ama Ulisse giunto sulla sua isola a chiedere aiuto e ristoro e ne trasforma i compagni in porci, dopo averli colpiti con un bastone: la conosciamo così. Fin dalla sua prima apparizione nell’Odissea di Omero è stata appiattita nel ruolo della terribile maga e investita dagli stereotipi paurosi sul femminile potente, inscritto nel paradigma a dominanza maschile, è stata nell’immaginazione collettiva l’archetipo della donna pericolosa, spietata seduttrice, ingannatrice e manipolatrice. Circe parla ben poco di sé, Omero non ci dice nulla dei suoi tormenti interiori. Quale storia avrebbe invece raccontato Circe?
A portare in scena al Teatro Litta di Milano (dal 10 al 15 dicembre) una rilettura di questa figura mitologica come simbolo di donna contemporanea, conferendole una voce potente e autonoma, è una luminosa Chiara Salvucci, artista poliedrica della Compagnia Corrado d’Elia (dove porta un contributo significativo alla produzione artistica come attrice e scenografa,) vincitrice del prestigioso Premio nazionale Franco Enriquez 2024 (come migliore attrice protagonista per l’interpretazione di Desdemona nell’Otello di William Shakespeare con la regia di Corrado d’Elia). Il progetto, l’idea, la regia, l’interpretazione sono dello stessa Salvucci. Sua anche la scenografia , rocce e piante volte a evocare l’isola di Eea, dove Circe “dai riccioli belli”, nata dal dio del sole Elios e dalla ninfa Perseide, vive esiliata (dal padre) per l’eternità e condannata alla solitudine. La drammaturgia (in cui ci è parso di trovare echi della Circe della scrittrice americana Madeline Miller) è siglata dal Collettivo Cantiere Circe con la supervisione di Corrado d’Elia. Circe è anche il primo spettacolo di Cantiere Circe, un gruppo di lavoro promosso dalla Compagnia Corrado d’Elia, che si dedica alla creazione di spettacoli teatrali, indagando il nostro tempo, generando nuovi immaginari e nuove possibilità interpretative. Preziosissimo progetto di un esercizio di sguardo, di scoperta e di osservazione sul mondo femminile, “che possa tracciare vie d’uscita da ogni costrizione identitaria e di genere”. E prendendo la parola in prima persona, sarà proprio Circe a raccontarci ora una storia differente che mette al centro la prospettiva femminile.
Un telo è posto a celare il palcoscenico, all’inizio si intravede solo la silhouette dell’attrice che là si muove con piccoli, flessuosamente ondulati, liquidi movimenti delle sue mani. Quasi a voler evocare una identità – quella di Circe, ancora non del tutto decifrabile, non ancora raggiunta, come la nebbia che avvolge la scena. Sola, sotto la calda luce dei riflettori, (una menzione particolare va alle luci ben dosate nell’intensità e nei giochi cromatici disegnate da Francesca Brancaccio). Su un palco trasformato nell’isola di Eea, la vediamo mentre cammina a piedi scalzi sulla spiaggia rocciosa e fra le sterpaglie di Eea. Il femminile per ritrovarsi ha bisogno di un’isola, un luogo protetto, al riparo dalle influenze estranee e soverchianti. Una stanza tutta per sé, dirà Virginia Woolf. Dalla sua piccola isola in cui è confinata, Circe fa della solitudine, non la sua condanna, bensì la sua forza. Studia le virtù delle piante, impara ad addomesticare le bestie selvatiche e ricorrere alle divine tisane di erbe per difendersi dall’uomo predatore. Non è un caso se uno dei ricordi condivisi da Circe con maggior veemenza con il pubblico sia la rabbia nel vedersi regalare ogni anno un nuovo telaio a indicarle quali aspettative la famiglia nutrisse nei suoi confronti. Telai che a un certo punto lei getta dalla scogliera: un gesto plateale per sottolineare come non si identifichi affatto in quell’ancestrale stereotipo femminile. Chiara Salvucci dona a Circe una nuova magia: quella di donna libera e consapevole, non sottoposta al potere maschile, in cui riconoscerci. Consapevolezza che sulla scena è ben evocata quando significativamente l’attrice indosserà un paio di scarpe rosse con i tacchi. Quando Ulisse chiederà a Circe il permesso di lasciarla, Circe lo lascia andare, anzi favorisce la sua partenza, gli restituisce i compagni fatti di nuovo uomini, suscita venti favorevoli alla sua navigazione, diventa una fida consigliera. Nel congedo, si volge dalla battigia per tornare al rigoglio della sua isola. Dopo l’abbandono dell’ uomo che ama, sa tornare a se stessa.