Il 25 novembre è la data in cui si celebra in tutto il pianeta un momento di riflessione sull’alto numero di aggressioni e maltrattamenti contro il genere femminile. Cinque artiste ne sono testimonianza diretta
Le donne continuano a essere uccise. Lo confermano i dati dell’ultimo report del Ministero dell’Interno, aggiornati al 3 novembre. Da inizio anno sono 96 gli omicidi di donne (erano 105 tra gennaio e novembre 2023), di cui 82 in ambito familiare e affettivo (87), 51 uccise da partner o ex partner. L’Osservatorio di “Non Una di Meno” ne conta ancora di più. Le leggi sono uno strumento essenziale ma non sono sufficienti a difendere le donne. Dentro c’è il tema, forte, dell’educazione agli affetti e al rispetto, per abbattere stereotipi di genere e discriminazione che hanno radici culturale e sociali di cui è ancora impregnata la società e che nutrono la violenza. L’arte può essere uno strumento potentissimo a difesa della donne. Perché succede, perché è difficile uscirne, perché la violenza fatichiamo così tanto a riconoscerla. In tutte le sue forme: quella delle umiliazioni, del controllo, della gelosia. E quella che invece lascia i segni sul corpo: i lividi, i denti rotti, i visi gonfi. Due facce dello stesso male, ugualmente dolorose. .Per innescare una ulteriore riflessione sul tema, abbiamo così scelto cinque celebri artiste che con la loro opera – dalla pittura alla performance alla fotografia – hanno denunciato femminicidi e stupri.
Artemisia Gentileschi. “Pittora” come lei stessa si definiva, di raro talento e sapienza coloristica, vissuta tra il 1593 e il 1656, è stuprata da Agostino Tassi, amico e collaboratore del padre Orazio (pittore piuttosto famoso all’epoca) ma invece di subire in silenzio denuncia il suo aggressore, però a essere sottoposta ad umilianti visite mediche pubbliche e torture è lei, l’accusatrice. Alla fine del processo, il violentatore fu condannato, se così possiamo dire, a una pena particolare: a scegliere, a suo piacimento, se abbandonare Roma o a essere incarcerato. Inutile dire quale fu la sua scelta. A testimoniare quanto sia barbara la violenza, c’è un suo dipinto: Susanna e i vecchioni. Lo sguardo terrorizzato e turbato della ragazza.
Frida Khalo. Unos cuantos piquetitos. Qualche piccola coltellata e nulla più. Frida Khalo dipinse il quadro nel 1935 dopo aver letto sul giornale di un marito che aveva accoltellato la moglie per gelosia e in tribunale si era difeso dicendo di averle dato soltanto “Unos cuantos piquetitos”. Nel quadro l’uomo, con ancora il coltello in mano, è in piedi accanto al letto dove la donna, nuda, solo con una scarpa, è morente. Sangue. Tutta la tela ne è piena: sul letto, sul pavimento, sulla camicia del criminale e perfino sulla cornice. Attraverso l’arte, la Khalo denuncia il brutale omicidio di una donna da parte di suo marito, considerato un “crimine passionale”. Ancora oggi, nelle sentenze giudiziarie, così come in alcune cronache giornalistiche, si parla raptus di follia o di gelosia, quasi come una sorta di attenuante per delitti che vanno invece classificati semplicemente come “futili e abbietti”.
Marina Abramović. Indubbiamente Rhythm 0 del 1974 di Marina Abramović è una delle performance ( più scioccanti di tutti di tempi. Fin dove può arrivare il sadismo di un uomo? Nella galleria Studio Morra di Napoli, la Abramović su un tavolo posizionò 72 oggetti: dal più innocuo (piume) ai più pericolosi (lamette, coltelli, una pistola con proiettile): è rimasta immobile per sei ore di fila, chiarendo che non si sarebbe mossa qualunque cosa il pubblico le avesse fatto. Inizialmente non successe nulla; poi, quando il pubblico si rese conto che la artista non avrebbe fatto niente per proteggersi, iniziò un escalation di violenza, senza alcuna remora. Ci fu chi le provocò dei tagli, le conficcò le spine di rosa nella pelle, chi le puntò la pistola carica. Lei rimaneva immobile, mentre lacrime le rigavano il volto, nel dolore per la visione della brutalità umana. Scopo dell’artista era proprio quello di dimostrare di cosa può essere capace l’umano. Come persone apparentemente “normali”, possano diventare estremamente violente. La Abramović era certa, ha raccontato, che se nella galleria non fossero state presenti altre donne, sarebbe stata violentata.
Nan Goldin. Famosissimo e spietato anche l’autoritratto della celebre fotografa americana Nan Goldin (classe 1953) protagonista di battaglie sui diritti civili (alla sua vita è ispirato il documentario di Laura Poitras che ha vinto il Leone d’oro a Venezia nel 2022), intitolato Nan after being battered (Nan un mese dopo essere stata picchiata), del 1984 nella quale si autoritrae con gli orecchini e la collana al collo, guarda dritto nell’obiettivo, ha il volto ancora tumefatto. gli occhi cerchiati di macchie violacee. E’ un’immagine fortissima. Era stata appena picchiata brutalmente dal suo uomo con l’intento di farla diventare cieca. E lei coraggiosamente si fotografa . Per dirsi e dirci che non deve più accadere a nessuna donna, ma che è accaduto, è successo proprio a lei, e la fotografia è lì a testimoniarlo. Ci sbatte in faccia la realtà. Esiste, e non possiamo voltare la faccia davanti a tali violenze. Lei è solo una delle tante. Questa è la realtà di ancora troppe donne nel mondo
Elina Chauvet. L’artista messicana, laureata in architettura è l’autrice della iconica installazione artistica “Scarpette Rosse”, diventate un potente simbolo nella lotta contro la violenza di genere. ‘Zapatos Rojos‘, per l’appunto ‘scarpe rosse‘ nasce nel 2009 a Ciudad Juarez (città tristemente nota per il numero indicibile di donne sequestrate, stuprate e uccise ), dopo che Julia, la sorella di Elina, viene uccisa dal compagno. Da lì un lungo processo di elaborazione del dolore che avviene, almeno in parte, con l’arte. La prima installazione è datata 22 luglio 2009, per dare una voce universale al dolore che l’aveva colpita. Erano 33 le paia di scarpe allora, che Elina mise in piazza, scarpe portate dalle famiglie delle giovani donne, sparite e poi ritrovate senza vita, violate e mutilate, tanto che alcune delle loro scarpe insanguinate sono servite in alcuni casi a riconoscere le vittime. Sono state dipinte di rosso e poggiate al centro della piazza principale di Juàrez e disposte in una marcia simbolica, una marcia silenziosa di donne assenti, lungo una strada cittadina. Le scarpe che le donne indossano per uscire dalle pareti domestiche, le scarpe per andare al lavoro, le scarpe che fanno correre di paura. Sono rosse. Rosso il colore della passione, del sangue, della violenza. Le scarpe sono rosse e vuote. Parlano di un’assenza. Corpi uccisi che non sono più dentro quelle scarpe. Partita dal Messico l’installazione di Elina Chauvet è stato riprodotta ovunque, nelle strade, nelle piazze, nelle scuole, di tutto il mondo. Perché la violenza contro le donne – di ogni età, dalle ragazze alle anziane delle quali spesso ci dimentichiamo – è un fenomeno globale, non legato all’etnia, alla religione o alla posizione sociale e geografica.