La vedova Baj ricorda suo marito, grande artista celebrato da Milano con una mostra a Palazzo Reale fino al 9 febbraio 2025 per celebrare il centenario dalla sua nascita
Le Dame, i Generali, gli Ultracorpi, gli Specchi, i Mobili e i mostri dell’Apocalisse. C’è tutto Enrico Baj nella mostra retrospettiva “Baj chez Baj” che Milano, la sua città, gli dedica a Palazzo Reale (fino al 9 febbraio 2025) per celebrare i 100 anni dalla nascita (Milano, 1924 – Vergiate, 2003). Roberta Cerini Baj, vedova dell’artista, compagna di tutta una vita, che ha curato la mostra insieme a Chiara Gatti, ci ha aperto le porte della sua casa di Vergiate, vicino a Varese, immersa nel verde, per raccontarci l’uomo e l’artista.
Già due grotteschi generali dipinti sulla facciata d’ingresso, ci avvisano che siamo proprio chez Baj. In paese, vicino alla biblioteca comunale, in ricordo dell’artista, è sorta invece una piazza che porta il suo nome. E sul distributore dell’acqua è affisso il poster di una sua celebre Dama idraulica. “Ne abbiamo viste tante prima di decidere dove mettere radici: c’era Lucio Fontana a Comabbio, Giancarlo Sangregorio a Sesto Calende. Poi, una domenica mattina del gennaio ‘67 capimmo subito che quella vecchia casa abbandonata in collina, ancora con il pavimento Anni ‘20, era per noi. Nel 1974 ci trasferimmo definitivamente da Milano. E nell’82 il Baj ne fece anche il suo studio. Hai visto quanto verde? Al Baj piaceva tagliare l’erba con il trattorino. Era contento di stare qua. Però ha continuato a volere tenere la residenza a Milano, la sua città”. Qui tutto parla di Enrico Baj. Non c’è un angolo vuoto. “La casa ha continuato a riempirsi, c’è sempre qualcosa di nuovo che arriva o che va. Vedi questo spazio bianco sopra il camino? C’era appeso un Generale che adesso è esposto a Palazzo Reale. Forse agli altri appare come una casa museo ma per me no. Questa per me è la mia casa. Adesso certo è un po’ vuota rispetto a una volta, perché eravamo tanti e adesso sono sola, in compagnia di Clifford, il cane, Pepe l’asino, e Pestilenza, la gallinella soprannominata talvolta anche Madame, però ci sto bene tutto sommato e quando vengono i miei figli e nipoti torniamo ad essere una grande famiglia”
Ad accogliere i visitatori nella prima sala della mostra a Palazzo Reale, c’è l’Apocalisse: 150 tavole sagomate e dipinte con personaggi infernali e animaleschi rappresentati con ironia e sarcasmo, con linguacce e gesti
Il Baj l’ha realizzata proprio qui, nel porticato, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. A quest’opera si dedicò in maniera totalizzante, aggiungendo sagoma dopo sagoma, personaggio dopo personaggio in un carosello di mostruosità esuberanti, di danze macabre, draghi, licantropi, corpi senza arti, teste con tre occhi, occhi senza faccia, facce senza volti, volti stravolti, e poi teschi, artigli, pipistrelli, diavoli, ,serpi, orchi. L’idea gli è balenata da un libro di Konrad Lorenz sui peccati della nostra civiltà. Ha voluto illustrare, in una sorta di grande affresco, gli incubi generati dal sonno della Ragione. Con questo sguardo premonitore che è tipico di Baj. Anche l’Apocalisse, come il funerale di Pinelli, sta a simboleggiare una caduta: il degrado di un sistema, vuoi di sviluppo, vuoi politico, vuoi culturale. La disumanizzazione dell’uomo, A partire dall’Apocalisse , l’attenzione di Baj si sposta sulle contraddizioni che agitano la nostra società. La violenza non è più solo quella delle armi, diceva, ma è la violenza di quel progresso tecnologico che diventa distruttivo, l’oppressione pervasiva della tecnologia sull’ uomo. Un tema molto attuale se si pensa all’intelligenza artificiale. Il Baj era anche molto pratico: è un opera imponente, facilissima però da smontare. La caratteristica di questa installazione è data dalla possibilità di comporla sempre in modo differente aggiungendo o togliendo sagome. Come un gioco combinatorio. Per agevolare il trasporto e non disturbare la composizione.
Nato in una famiglia di ingegneri, Enrico Baj scopre all’età di dodici anni la sua vocazione artistica
Merito della nonna e della scarlattina. Raccontava che da bambino gli era venuta la scarlattina e a quell’ epoca bisognava stare tappati in casa , e lui ha incominciato a disegnare sotto l’occhio attento della nonna.
Il primo studio storico ?
In via Pietro Teulié, al civico numero 1. Il primo generale che attraversò la mia vita, diceva il Baj, e dove, nel 1951 insieme a Sergio Dangelo, fonda il movimento Nucleare. Adesso, proprio in questi giorni, è stata posta dal Comune una targa che lo ricorda. Da via Teulié a via Bertini, poi in via Bonnet e infine in via Gabba. Qui lavora ai Funerali dell’anarchico Pinelli. Se tu osservi l’opera c’è un bambino con la sua bandierina rossa e con indosso un pellicciotto. E’ vestito come nostro figlio Pietro. I bimbi più grandi erano alla materna e io con Pietro, che aveva tre anni, andavo a trovarlo nello studio. Il pellicciotto era un n interno di castorino di mia mamma che era ormai un po’ consumato, il primo a metterlo era stato l’Andrea poi è passato a Pietro.
I funerali dell’anarchico Giuseppe Pinelli testimonia il suo grande impegno civile. Racconta di un periodo difficile della città milanese e di un paese segnato dalle violenze
A mio modesto avviso resterà come una delle opere principali della pittura italiana della seconda metà del ‘900. Racconta la storia di una moglie e due figlie che hanno perso un marito e un padre. Un dolore privato assurge a simbolo di denuncia contro ogni tipo di sopraffazione. Quando l’ho rivisto lì, nella Sala delle Cariatidi mi è venuta una stretta al cuore…, se l’avesse potuto vedere il Baj. Dopo la mostra troverà finalmente una collocazione permanente al Museo del Novecento, dopo anni passati in magazzino.
Gillo Dorfles ha definito, artisticamente parlando, Enrico Baj: onnivoro, dirompente assorbente. Ma com’era nel quotidiano?
Era uno che non stava mai fermo. E se non era in movimento fisico era in movimento mentale. Il Baj lavorava veloce: si metteva al tavolo, stendeva i suoi fiocchi. i bottoni, mi è sempre rimasto questo senso di mistero di come lui tac- tac- tac, in quattro e quattr’otto mettesse in piedi una cosa fantastica. Era un uomo libero. Non si è mai fatto condizionare dall’ambiente, dal mercato e da tutte quelle cose che a volte condizionano la vita di un artista, su questo non ho dubbi. Si è sempre sentito anarchico, intollerante verso ogni qualsiasi forma di potere, da qualsiasi parte venisse”.
Si è sempre mosso fra gioco e impegno civile
Riteneva che il gioco avesse una funzione importantissima. “Farebbero bene a imporre, anziché la leva militare, il gioco obbligatorio”, diceva. Gli piaceva ogni tanto addobbarsi, si metteva addosso una medaglia, un fiocco in testa e faceva un po’ di teatro. A un certo punto il Baj ha cominciato a voler festeggiare i suoi compleanni: si pranzava qui in sala anche in trenta, poi il tavolo lungo non è bastato più e si festeggiava nelle studio. In uno dei tanti pranzi a Vergiate Alda Merini, ospite più o meno fissa, si faceva portare a tavola la macchina da scrivere per fissare i pensieri in versi.
Un’altra caratteristica del Baj?
E’ sempre stato un impaziente. Aveva questa urgenza del fare. Se dovevamo uscire alle sette, già alle sei era già lì che martellava: sei pronta? Si andava al Museo? Visita rapidissima. Al Louvre in mezz’ora si era già visto tutto, quello che gli interessava ben inteso. Quando guidava suonava il clacson in continuazione, mi faceva impazzire. A un certo punto ho deciso: ti faccio da autista, a me piace guidare e lui era contento ma lui continuava lo stesso a suonare il il clacson.
Ho l ‘impressione che insieme abbiate fatto un sacco di risate
Eh si si quelle mi mancano tanto. Quel suo modo sempre gioioso e ludico di fare, modo che non ha mai abbandonato nemmeno dipingendo le sue opere più apparentemente serie
Negli anni 60 avete abitato per lunghi periodi a Parigi, presso lo studio, già di Max Ernst, in Rue Mathurin Régnier. Tre aggettivi per quegli anni parigini?
Entusiasmanti, divertenti, formativi. Irripetibili”. Io così giovane, lui già con molte amicizie: mi si aprì un mondo. Si incontravano tutti a Parigi: Marcel Duchamp, Marx Ernst, Raymond Queneau, André Breton, André Pieyre de Mandiargues. All’inizio ero un po’ spaesata, poi però quando hai 20 anni superi tutto”. Roberta mi mostra una foto: primi di maggio 1965, 58, rue Mathurin Régnier a Parigi, Fête à la Joconde. Al centro Duchamp seduto sotto il collage della Gioconda, a destra Teeny (soprannome di Alexina Sattler, seconda moglie di Duchamp n.d.r), Guido Biasi, Baj e io. Il Baj ha preso una copia della Gioconda, le ha tolto la testa e ci ha messo quella di Marchel Duchamp che si e divertito molto
La prima estate insieme?
A Cadaques, a trovare Marchel Duchamp, in macchina passando per Girona dove c’era Salvador Dalì per la corrida, e gli avevano regalato l’orecchio di un toro, una cosa orribile. Marchel, se ne stava a casa, Teeny ci portava a fare il bagno in una acqua gelida, lei si tuffava felice come una foca.
Come è nata la vostra lunga storia d’amore?
Ci siamo conosciuti a una grande festa in via Bigli, nell’autunno del 1964, da Bruna Bini (proprietaria di una delle più famose sartorie nella modaiola via Montenapoleone, n.d.r.). Fu un caso, ho sempre pensato che se non ci fossimo incontrati lì, non ci sarebbero state altre occasioni, avevamo giri molto diversi. Io non avevo ancora 20 anni, lui non ancora 40. Quando mi invitò a pranzo, mio padre mi avverti: Tu non sai coesa vogliono gli uomini di quella età. Il Baj i mi telefonava sempre da Parigi: mi faceva un effettone. Quando è tornato ci siamo rivisti e sai come succede da cosa nasce cosa. Il Baj diceva: se sono rose fioriranno. Le rose sono fiorite. Arrivano anche i bambini a poca distanza l’uno dall’altro: Angelo, Andrea, Pietro, che nascono nel ‘67, ‘68 e ‘69, mentre Marianna, aspetta il ‘78.
Un aneddoto che non ha ancora raccontato?
E va bene, la accontento. Si approfittava della mia assenza d’estate quando andavo con i bambini al mare per mangiare la Simmenthal che mi sono sempre rifiutata ti portargli in tavola. Sono bravissima a cucinare (il l padre di Roberta, il visconte Livio Cerini di Castagnate, industriale lombardo, raffinato gastronomo ha scritto svariati libri di cucina che , negli anni, sono diventati dei classici come Il cuoco gentiluomo, ottocento pagine con menù e ricettari, n.d.r.).
Artista geniale nell’utilizzo della tecnica del collage. Con i più disparati materiali: il legno, le stoffe, pezzi di meccano, i tubi idraulici, passamanerie, medaglie, vetri, cianfrusaglie, fiori e fili nastri, cordoni, passamanerie, fiocchi di tende
Quadranti di orologi (ottimi come occhi), scopetti che fungevano da naso e barba, piedini di poltrone, maschere da subacqueo, taglierini per la pizza, cerniere, rubinetti, bottoni tantissimi bottoni. Non resisteva: per lui era vitale l’abbondanza di materiali, che teneva tutti ordinati in scatole e cesti . Non si è mai stancato di accumulare cose e io ne ho ancora la cantina piena. .
Lavorava con un sottofondo di musica?
A un certo punto circolavano in casa dischi con i canti gregoriani ma è durato poco, forse influenzato da Breton diceva che la musica era solo rumore. Una volta mi ha persino fatto a pezzi tutti i nastri registrati con le canzoni di Boris Vian che adoravo.
E’ mai stata una musa, per suo marito?
Ah beh ,questo bisognava chiederlo a lui, io non lo so. Potrebbe essere… mah, è difficile dirlo. Poi Roberta mi porta davanti alla scala che porta al piano superiore e mi indica un quadro alla parete: è il ritratto di un volto femminile destrutturato in stile cubista, con una medaglietta fra i due seni nudi e mi dice “Ecco questa sono io”.
Siamo ai saluti. “Adesso preparo la pappa a Pepe, mi meraviglia non abbia ancora ragliato di protesta”.