Una scena de "Io, Ludwuig Van Beethoven"

L’autore e regista d’Elia l’1 luglio ha riproposto ai Bagni Misteriosi del teatro Franco Parenti “Io, Ludwig Van Beethoven”, un racconto potente  e di grande intensità emotiva sulla figura del  grande compositore tedesco

Un alto sgabello, bianco, al centro del palco. E lui, Corrado d’Elia, l’Autore, il Regista, l’Attore vestito come un direttore d’orchestra (però con il cravattino slacciato), alle sue spalle un maxi schermo che ne rimanda il volto e lo amplifica. Tutto è fermo. È un attimo, un vortice. In un fascio dii luce, come una saetta, irrompe  la potenza della musica di Ludwig von Beethoven (1770-1827), mentre la voce di D’Elia centellina parole come le note su uno spartito. Con scosse e ripartenze improvvise. Unendo forza e sensibilità. Muovendo le mani su una tastiera invisibile. Dando fisicità al suo atto creativo.
Nell’estate milanese, nell’incantata cornice d’acqua dei Bagni Misteriosi (il palcoscenico sotto le stelle del Teatro Franco Parenti) dopo i successi delle precedenti stagioni, D’Elia ha riproposto “trasportato da una antica passione” “Io, Ludwig Van Beethoven”. Un racconto potente  e di grande intensità emotiva sulla figura del  grande compositore tedesco.

Ludwig Van Beethoven


“È difficile a parole raccontare la musica, una Musica che non ha nemmeno bisogno di essere ‘spiegata’, il genio è spesso incomprensibile e inafferrabile.  Un sordo che componeva della musica da brividi: ma com’era possibile? Lui non amava la musica, lui era la musica – esordisce D’Elia -. Quando oggi racconto van Beethoven rispetto a qualche centinaio di repliche fa, ho coscienza di ogni singola parola. Il mio scopo è che si arrivi a casa e si ascolti Beethoven. La musica d Beethoven è forse una delle più grandi, straordinarie, appaganti esperienze fisiche e spirituali che si possa avere la fortuna di vivere. Beethoven richiede all’ascoltatore pazienza, fatica, tenacia come la sua musica è frutto di un processo creativo lungo e sofferto. L’opera di Beethoven è questo tempio nell’udito di ciascun ascoltatore, in cui si ode il rimbombo dell’universo. E’ il luogo in cui il divino trova espressione, lì dove nessun altro è stato in grado di sentire, con il il vigore e la genialità che solo il silenzio della sua sordità poteva sentire artisticamente”.


Un genio smisurato, tormentato e straripante. In brutale contrasto con la bellezza della musica da lui creata, Ludwig era un rozzo orso, intrattabile, burbero, scontroso, temibile, arcigno, arrogante. L’aspetto era trasandato, le movenze goffe, il viso torvo, le labbra serrate. Uno che con gli altri non parlava, e affidava ogni emozione alla musica, unico mezzo capace di esprimere la forza e la sensibilità, l’umanità che erano proprie del suo sentire. E’ questa la verità: la sua musica si è presa tutta la sua bellezza.  
Senza mai alzarsi dallo sgabello bianco posizionato al centro del palco, che lo tiene incollato e imprigionato, un po’ come forse si sentiva Beethoven nella sua sordità. D’Elia ora allarga le braccia e le protende al cielo, ora stringe i pugni, ora mima con le mani i movimenti delle sinfonie. Muove in modo scomposto mani e piedi, cerca di riprodurre l’espressione della sua musica con gesti ’selvaggi’.  “Beethoven è, prima di tutto, grandezza. È la potenza del suono, dell’immaginazione artistica che sa scolpire lo spirito del mondo. Beethoven è folgore, tuono e tempesta; è l’addensarsi delle nubi in un cielo sereno. Ma è anche pace, beatitudine, una straordinaria levità sonora ed emozionale”,
D’Elia non entra nel personaggio. Entra  dentro l’anima del compositore eternamente in conflitto: l’una, titanica e battagliera, l’altra, pensosa e solitaria. Entra  dentro la sua interiorità inquieta e le sue dolorose esperienze esistenziali: “Indagarne la vita di Beethoven vuol dire accostarsi ad altezze umanamente insolite, rubarne per un istante la grandezza e la follia per raggiungere ebbrezze ed emozioni insperate”, racconta.


L’attore, seduto sull’alto sgabello bianco per tutta la durata dello spettacolo, ci racconta la storia di Beethoven, della sua vita, della sua musica, e a momenti è il narratore, a momenti è Beethoven stesso che parla. Racconta dall’infanzia, in una famiglia di umili origini, segnata dal difficile rapporto con un padre musicista alcolizzato e violento, la mortificante afasia fino a dieci anni, i primi successi, il profondo senso di solitudine, la sofferenza per la sordità, la condanna peggiore per un musicista. Sul palco, l’immagine di Beethoven sordo è di una forza immensa. D’Elia urla tutta la disperazione di Beethoven e il suo strazio di fronte all’idea di vivere una vita priva di suoni. Un dramma che spinse il genio tedesco sull’orlo del suicidio e che lo rese diffidente e scorbutico nei confronti delle persone con cui veniva a contatto: “Voi uomini che mi reputate o definite astioso, scontroso o addirittura misantropo, come mi fate torto! Voi non conoscete la causa segreta di ciò che mi fa apparire a voi così”, scriveva disperato nella lettera ai fratelli passata alla storia come Testamento di Heiligestadt, redatta nel 1802 in un momento di crisi profondissima.  


Dice D’Elia:  “Tutta la sua opera può essere intesa come una grande, solitaria e poderosa impresa di resistenza  dalla sofferenza e dalla delusione costitutivi dell’esistenza. Resistere e, nella resistenza, persistere”. Ludwig si  isola dal mondo e  riscatta in senso pieno la sua esistenza, consacrando  la propria vita  al la sua totale appartenenza alla musica, anche se non può più percepirla fisicamente.
“È un Beethoven titanico, quello della Quinta celeberrima Sinfonia in do minore.  Tatata… Potente e possente, lo scarno inciso d’apertura, un motto di sole quattro note lapidarie e scultoree, un cupo ribattere dei colpi del destino affidati ai timpani, che, secondo le parole dello stesso Beethoven, rappresenta “il destino che bussa alla porta”. Ma nel finale “Allegro” sfolgora nella tonalità di do maggiore la vittoria contro le forze oscure del destino, contro il quale l’uomo si erge a combattere eroicamente in nome della ragione”.
D’Elia  ci fa poi ascoltare  il l secondo movimento, Andante molto mosso in Si bemolle maggiore della Sesta Sinfonia nota come Pastorale. “Sentite? Tra un fremito d’archi e una breve melodia intonata dai violini evoca il sussurro delle acque del vicino ruscello e del fogliame mosso dal vento. Mentre il flauto, l’oboe e il clarinetto imitano il cinguettio degli uccelli in un’avvolgente estasi. Nel penultimo movimento, Allegro in Fa minore, le gocce di pioggia, tra tuoni, venti e fulmini, si trasformano in una progressiva e impetuosa tempesta, attraverso archi, timpani, trombe, tromboni e bassi”.

Come nella musica di Ludwig, i contrasti violenti si susseguono a momenti più mitigati e lirici, anche tutto lo spettacolo è un alternarsi di emozioni come gioia e dolore, passione ed inquietudine, disperazione, sottolineate dal gioco di luce nelle varie tonalità (azzurro, rosso, indaco, viola, fucsia, verde, grigio opalescente, bianco abbacinante). E che interpretano umori, paure, segreti, malinconie, verità ed esplosioni di vita. L’amore. L’amore di Beethoven verso la sua musica, Quello di d’Elia verso il genio e la musica del compositore, ma anche la passione per il proprio mestiere attoriale. Entrambi condividono l’esigenza del cuore e dell’anima di raccontare e raccontarsi, ognuno con il proprio linguaggio. “E l’amore ci rende immortali”,  dice Corrado aprendo le braccia in un abbraccio al pubblico, “perché è l’unico momento in cui noi diciamo “per sempre”. E  racconta della celebre lettera ritrovata dopo la morte del musicista  (avvenuta il 26 marzo 1827)  in un cassetto del bureau privato del compositore. La lettera che non è mai stata spedita indica solo la data, 6 luglio, lunedì, manca l’ anno di stesura, è indirizzate a una donna che Beethoven chiama la sua ‘amata immortale’. “Il mio unico tesoro, il mio tutto. Addio. Oh continua ad amarmi,  Eternamente tuo. Eternamente mia. Eternamente nostri.” La sua identità è ancora oggi un mistero: è una donna realmente esistita l’oggetto di questa passione oppure è la musica  a cui Beethoven ha dedicato tutta la sua esistenza, l’ha resa eterna e lei l’ha ricambiato rendendolo eterno a sua volta?


Completamente sordo, scrive la sua opera suprema, la Nona Sinfonia. E l’arte di Beethoven raggiunge altezze vertiginose. Così, dopo dieci anni di buio e di silenzio, il 7 maggio 1824, la Nona sinfonia, viene presentata a Vienna, e fu un successo folgorante. Beethoven stupì tutti inserendo nel finale del quarto movimento un coro di voci umane a cui sono affidate le parole della poesia di Friedrich Schiller “An die Freude”, l’Inno alla gioia, che esalta la fratellanza fra uomini, e un pubblico in delirio, alzatosi in piedi,  salutò la grandezza del suo genio sventolando in silenzio un mare di fazzoletti bianchi, al posto degli applausi che lui non avrebbe potuto udire. Anche il pubblico dei Bagni misteriosi, si e alzato in piedi, ad agitare fazzoletti bianchi, fra lunghi e scroscianti  applausi. Un inno alla gioia lo è stato davvero anche  “Io, Ludwig Van Beethoven”, di Corrado D’Elia. 

Di Cristina Tirinzoni

Giornalista professionista di lungo corso, ha cominciato a scrivere per testate femminili (Donna Moderna, Club 3, Effe, Donna in salute). E’ stata poi per lungo tempo redattore del mensile Vitality e del mensile Psychologies magazine e Cosmopolitan, occupandosi di attualità, cultura, psicologia. Ha pubblicato le raccolte di poesie Come un taglio nel paesaggio (Genesi editore, 2014) e Sia pure il tempo di un istante (Neos edizioni, 2010).

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