Il post Khamenei si annuncia più incerto che mai. Ripetere, prima delle urne di giugno, quello fatto lo scorso 1 marzo, esporrebbe un ceto politico a critiche ancora più aspre e mancanza di credibilità
Un infausto destino restituisce al presidente iraniano Ebrahim Raisi, morto a sessantatré anni in un incidente di volo precipitando nella montuosa regione azera a Nord di Tabriz, quella fine crudele che da procuratore aveva destinato a un’infinità di oppositori tramite impiccagione. Migliaia di cittadini, sostengono i suoi accusatori: soprattutto Mojahedin-e-Khalq [un partito politico originariamente di stampo marxista ma che ora propone una politica socialdemocratica e laica, oltre che nazionalista e islamo-socialista] passati dalle galere al patibolo nel 1988 per volere del Ruhollah Khomeini che avocava a sé il mandato totale del giurista e di cui Raisi era un fedele seguace, peraltro in copiosissima compagnia, e feroce elargitore di sentenze capitali. Quei mujaheddin avevano perso lo scontro per il potere che si sviluppò nel biennio 1980-81, diventando “bombaroli” contro i fratelli di sangue e avvolsero nel sangue figure di primo piano del “clero” sciita come Mohammad Beheshti.
In quell’epoca di spietata lotta intestina, coadiuvata dal conflitto esterno contro l’esercito di Saddam Hussein, si consolidò la cosiddetta “generazione del fronte” che, dietro al sacrificio dei mostazafin [letteralmente “i senza scarpe”, “i diseredati”] che rimpolpavano le file delle milizie volontarie basij [una forza paramilitare iraniana fondata per ordine dell’ayatollah Ruhollah Khomeini nel novembre del 1979] , forgiavano l’adesione militante alla patria islamica. Morire per essa diventa un sacrificio sacro, in linea con lo storico martirio di Hossein [nipote del profeta Muhammad, l’imam Hossein fu ucciso insieme a 72 suoi seguaci a Kerbala per mano delle truppe del califfo Omayyade Yazid. La strage avvenne il 10 del mese di Muharram del 680 che gli sciiti ricordano ogni anno con le festività dell’Ashura. A questo episodio si fa risalire la scissione tra i due grandi rami del mondo musulmano].
C’è un unico filo che ancora lega il presente iraniano a un passato prossimo distante 45 anni. Parte di quella leva ha raggiunto miglior vita, altri mostrano barbe e capelli bianchi più di quelli che celava sotto il turbante il presidente deceduto. Restano tuttora salde al potere le strutture sorte all’epoca, il clero politicizzato voluto da Khomeini a soppiantare quello quietista, l’organizzazione dei Guardiani della Rivoluzione diventata di fatto un partito politico, per giunta armato, supportato delle milizie basij, che nei più recenti anni di conflitti su questioni elettorali, sociali, morali, motivazionali rappresentano il braccio muscolare di quello che gli oppositori definiscono un regime. Per giunta brutale, in scia con quanto la Rivoluzione aveva voluto abbattere esiliando la dinastia Pahlavi.
CONGETTURE E FUTURO
Le dichiarazioni ufficiali sulla scomparsa del presidente, del ministro degli Esteri Hossein Abdollahian, del governatore regionale Malek Rahmati e dell’imam di Tabriz Ali al-Hashem, tutti carbonizzati dopo lo schianto dell’elicottero Bell 212, fa comunque piangere milioni di concittadini in un lutto lungo cinque giorni. I dietrologi sospetteranno, senza avere certezze, del disastro pensando a un atto voluto. Non attuato dai nemici esterni, le Intelligence israeliana e statunitense, che pure agguati mirati hanno compiuto in tempi lontani e vicini. Forse compiuto da nemici interni, attivati per un sabotaggio del vecchio velivolo, l’unico a precipitare sui tre simili. O ancora mediante l’infiltrazione d’un attentatore-suicida nel ruolo di pilota. Fuori dai sospetti c’è l’errore di manovra, il malore, un passaggio troppo radente fra tempesta d’acqua e nebbia. Oppure l’inafferrabile destino.
Di fatto il primo cittadino iraniano resta vittima d’un apparecchio datato, vecchio di mezzo secolo, magari carente nella manutenzione per i noti problemi di reperire ricambi sotto l’embargo che il Paese subisce da quarant’anni. Un isolamento che ha continuato a patire anche durante il “disgelo” obamiano cui il presidente Hassan Rohani aveva prestato la collaborazione sul tema del nucleare. Vittime dell’embargo negli anni ce ne sono state diverse, per ragioni sanitarie o lavorative, quello di Raisi è un caso eclatante, poiché il ceto politico riserva per se stesso attenzioni e precauzioni. Chi si domanda cosa accadrà ora, ha già avuto la risposta nel traghettamento istituzionale attraverso nuove elezioni previste il 28 giugno, nella reggenza presidenziale passata al vice presidente Mohammed Mokhber, uomo d’apparato e amministratore nell’ordine temporale della Fondazione Mostafazan, della Banca Sina e della Setad, un’organizzazione parastatale sotto il controllo diretto della Guida Suprema dell’Iran costituita a migliaia di proprietà confiscate all’indomani della rivoluzione islamica del 1979.
L’IRAN TORNA AL VOTO
Il busillis di tornare al voto dopo la grande astensione dello scorso 1° marzo, una fuga dall’urna del 60% dell’elettorato con contorni marcatamente politici che mai la Repubblica Islamica aveva conosciuto, ruoterà attorno ai candidati e alla loro selezione. Non soltanto i nomi, di cui è già nota una manciata di personaggi quasi tutti scarsamente carismatici, come del resto era anche Raisi, ma la scrematura operata dall’Assemblea dei Guardiani e dalla Guida Suprema. La mossa intrapresa nei mesi scorsi di bloccare quasi tutti, non solo i malvisti riformatori, ma finanche i moderati come Rohani, in predicato a entrare nell’Assemblea degli Esperti e bocciato a priori, ha prodotto il grande freddo d’un astensionismo di massa. Ripeterlo a giugno, esporrebbe un ceto politico già in crisi per la smaccata autoreferenzialità a critiche ancora più aspre e mancanza di credibilità.
Più conosciuto, ma finora perdente in due corse alla presidenza, è l’ex sindaco di Teheran il sessantatreenne Mohammad Ghalibaf, proveniente dalla confraternita dei militari. Uomo che fa ricordare l’unico Capo di Stato laico dell’Iran rivoluzionario, un altro Mahmoud, Ahmadinejad. Emarginato quest’ultimo proprio da Khamenei, dopo lo scandalo d’un secondo mandato conquistato a suon di brogli elettorali. Ma emarginato non per questo motivo, bensì per aver tramato negli anni successivi al 2009 col partito dei pasdaran per mettere all’angolo gli ayatollah a casa loro. In quei centri di potere finanziari che sono le fondazioni religiose (bonyad) atte a controllare la quasi totalità dell’economia interna.
Questo potrebbe spingere il vecchio Ali Khamenei, da dieci anni dato per spacciato e tuttora all’apparenza immarcescibile, ad allargare le maglie della selezione, ammettendo ad esempio elementi dal trascorso governativo e nel loro equilibrio in odio al clero ultraconservatore. Il più illustre è il sessantaseienne Ali Larijani, ex presidente del Majlis, appartenenza ai pasdaran, negoziatore per lo stesso Khamenei, poi finito fuori dalle grazie dei super conservatori tanto da essere escluso tre anni fa da una possibile candidatura alla presidenza. Più affidabile, sempre secondo i criteri del tradizionalismo, Moshen Araki, 68 anni, membro dell’Assemblea degli Esperti e del Consiglio del Discernimento, che nel 2021 si è scagliato contro i manifestanti sostenendo che chi partecipa a proteste è colpevole di “corruzione sulla terra” e passibile di pena di morte.
Che oggi il mantenimento del potere sia il perno della lotta politica di vertice a Teheran, è palese. E che tale confronto sia diventato un defatigante “braccio di ferro” fra gli ayatollah a guida ultraconservatrice e i Guardiani della Rivoluzione, conservatori laici, è risaputo da tempo. Negli anni scorsi i due gruppi hanno trovato un compromesso con la spartizione degli incarichi in politica interna; quella estera ha conosciuto una convergenza fra le scelte della Guida Suprema prossime al clero tradizionalista e la linea militare che sostiene l’Asse della Resistenza in Medio Oriente, con alleati presenti in vari luoghi caldi e infuocati: Hezbollah in Libano e Siria, Hamas a Gaza e in Cisgiordania, Ansar Allah in Yemen. Se nel corso degli ultimi tempi il rapporto con costoro si è basato su: vicinanza ideologica antimperialista, supporto geostrategico, fornitura soprattutto di missili balistici, la teoria sostenuta da Washington d’una direzione iraniana delle operazioni militari di ciascuno di questi soggetti è tutta da dimostrare.
Certo, l’impegno bellico presuppone costi elevati per armi e il mantenimento di uomini in divisa, una spesa che scava solchi in un’economia da vent’anni svilita e senza impulsi. Nel 2005 era un po’ al di sotto di quella turca, peraltro da un triennio afflitta dall’inflazione ma che comunque ha raddoppiato il valore del Pil pro capite rispetto a quello iraniano. Quest’ultimo è assimilabile, più o meno, a quello dell’Egitto, nazione che non dispone delle risorse energetiche persiane. La gravosa zavorra economica di Teheran è chiaramente legata all’isolamento commerciale e imprenditoriale imposto dalle sanzioni occidentali, una penalizzazione geopolitica che lo sguardo verso il mercato cinese e asiatico non compensa dovutamente. E fra i cicli di contestazioni interne, quelli di carattere socio-economico registratisi in piena pandemia da Covid, avevano preoccupato il governo d’un appena eletto Raisi perché coinvolgevano strati popolari delle aree rurali, solitamente fedeli agli ideali della Repubblica Islamica.
DESIDERIO DI CAMBIAMENTO
I giovani riottosi contro gli ayatollah, ribelli verso un sistema in cui non si riconoscono (velayat-e faqih su tutti, cioè la teoria – nata nell’ambito dello sciismo duodecimano e diventata fondante del governo della Repubblica iraniana – secondo la quale, in assenza dell’imam e nell’attesa del suo ritorno come “messia”, il giurista ha il potere di tutelare e reggere gli interessi della comunità), le ragazze insofferenti all’obbligo del velo e magari anche della religione, i manifestanti che accusano il regime di violenza e morte in piazza, nelle carceri, sui patiboli con oltre ottocento esecuzioni nell’anno passato, pongono il desiderio di cambiamento ben oltre il bisogno di libertà delle cosiddette “mal velate” degli anni Novanta e l’esplosione contestatrice dell’Onda Verde per i brogli elettorali del 2009. Costoro cercano un’identità che va ben oltre i dibattiti, conosciuti magari dai propri genitori non da loro perché quelle dispute sono vecchie di trent’anni. Era il presidente riformista Mohammad Khatami a dire: «La nostra rivoluzione darà vita a una nuova civiltà solo se saremo capaci di assimilare gli aspetti positivi della civiltà occidentale, e abbastanza saggi per riconoscerne gli aspetti negativi ed evitare di inglobarli». Il sogno di Khatami – sostenuto a gran voce dalla generazione iraniana che sperava nelle riforme, i fratelli minori o i figli della precedente generazione del fronte – s’era infranto sullo scollamento che gli studenti contestatori nel 1999 e nel 2003 avevano avuto col presidente illuminato ma non sodale con quelle azioni che considerava spontaneiste e senza sbocchi. Mentre il tradizionalismo clericale e laico, che considerava le loro voci filo americane, affidava il Paese ad Ahmadinejad. La Storia non si ripete mai uguale, però alcune similitudini le mostra.
Il recente movimento d’opposizione “Donna, vita e libertà” che continua a vivere in Iran perché non ha alternative o non vuole averne, puntando a restare in patria, a rischiare arresti e violenze, finora non è riuscito a palesare un proprio gruppo organizzato. È difficile se non impossibile farlo, scossi come si è dalla repressione. Gli oppositori “più fortunati” che vivono in un estero occidentale perché artisti, intellettuali, parenti di antagonisti storici dell’Iran khomeinista – di fatto una minoranza lontana dal territorio iraniano – lanciano invettive e strali contro il regime che poco servono a creare un’alternativa politica. Sono l’altra faccia d’una contraddizione balzata agli occhi in questi mesi, che se ora esprime con fuochi d’artificio la gioia per la dipartita di Raisi, è tacciata di cinico servilismo ai nemici del Paese e alla sua sicurezza. E finisce per celarsi nel catacombale dissenso d’una trasgressione alle imposizioni della “polizia morale” che per anni s’è sviluppato fra amici nel chiuso delle abitazioni. L’uscita alla luce del sole c’è stata solo per gridare lo strazio per l’assassinio di Mahsa Amini o di altri come lei. Mentre per la sfida contro “chierici” e pasdaran servirebbe la forza di un’organizzazione, attivisti e leader, il seguito di almeno una parte della popolazione, programmi e orientamenti che sciolgano il nodo di che nazione costruire e per chi. E questo non accadrà il 28 giugno.
Articolo su gentile concessione di www.confronti.net