La situazione nel confine, che per 2.640 km separa Afghanistan e Pakistan, sta diventando sempre più incandescente

C’è un confine, inventato dalla trascorsa storia coloniale britannica, che ha diviso un territorio finito nel tempo in due Stati. Il neonato regno afghano e la colonia indiana. Un accordo siglato nel 1893 stabilì le dimensioni del territorio diventato Afghanistan mentre a Oriente altra terra rientrava nella giurisdizione dell’India. Per secoli l’immensa area era stata denominata Pashtunistan, la terra del popolo pashtun che l’abitava. Dopo la firma apposta da sir Mortimer Durand, ministro degli esteri britannico per l’India e dal re afghano Abdul Rahman Khan si stabilì l’esistenza d’una frontiera di 2.640 chilometri che metteva varie tribù di pastori, agricoltori e anche guerriglieri al di qua e al di là di quella vergata sulle mappe e definita negli annali “Linea Durand”. Quel segno rappresentò uno strappo, offuscato dalle velleità del nazionalismo (in quel caso afghano) e dall’esistenza del colonialismo (britannico) che terminava la sua corsa due anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, piegato da un altro desiderio di nazione, la ciclopica nazione indiana nata dalla lotta contro l’imperialismo di Londra. Nel 1947 quel gran pezzo dell’India a ridosso dell’Afghanistan diventò Pakistan, Paese a maggioranza musulmano e abitato anche dai discendenti pashtun. Il tracciato divisivo fu rivendicato e riconosciuto ufficialmente più dal Pakistan che dall’Afghanistan, dove sia l’iniziale reggenza monarchica sia il successivo Stato repubblicano e poi Repubblica democratica d’impronta socialista non imponevano chiusure, consentendo ad abitanti, clan, famiglie imparentate e non, che vivevano, lavoravano, trafficavano a ridosso della Linea di attraversarla da est a ovest e viceversa senza formalità di sorta. Talune province afghane: Nangrahar, Khost, Paktika, Kandahar, Helmand risultavano i principali punti di attraversamento. In alcuni momenti storici si sono susseguiti irrigidimenti nei controlli voluti dai governanti di Islamabad per limitare gli andirivieni, specie quelli di combattenti armati.

Eppure durante la resistenza alle truppe sovietiche – intervenute dal dicembre 1979 per sedare i contrasti fratricidi delle fazioni del Partito Democratico del Popolo al potere a Kabul – i soldati pakistani tolleravano le ritirate tattiche dei mujaheddin oltre la Linea Durand. Dopo la guerra civile afghana (1992-96) e la nascita del primo Emirato talebano i rapporti fra i due Paesi si sono gradualmente incrinati, nonostante il comune denominatore religioso orientasse la politica da una parte e dall’altra della Linea. Ancor più dopo l’occupazione americana, con la missione militare Enduring Freedom e le successive della Nato (Isaf e Resolute Support), le tensioni fra governi e Paesi confinanti sono cresciute. Kabul accusava Islamabad d’ingerenza e di voler sfruttare a proprio vantaggio l’instabilità del sistema afghano, in quella fase posto sotto tutela statunitense creatrice e protettrice degli esecutivi-fantoccio di Hamid Karzai e Ashraf Ghani. Il Pakistan, nel perenne contrasto con l’India, cercava nella terra di confine una propria profondità strategica, da sfruttare, ad esempio, in campo energetico coi progetti dei gasdotti che dal Turkmenistan avrebbero raggiunto il porto di Karachi,  attraversando varie province afghane senza conceder loro  nulla. Ma c’era anche chi remava contro. La chiacchieratissima Inter-Services Intelligence, l‘agenzia preposta alla sicurezza interna pakistana e al controspionaggio, ha intrapreso e continua a intraprendere doppiogiochismi e trame palesi e occulte sul sistema interno e internazionale. Sin dall’epoca del generale-dittatore Muhammad Zia Ul-Haq, i militari pakistani rappresentano le eminenze grigie della politica, la condizionano e dettano volontà, se inascoltati e disattesi agiscono. In ogni modo. Con ogni mezzo, compreso il terrorismo praticato direttamente e fomentato. C’è un pezzo di storia recente che vede gruppi del fondamentalismo islamico, i Tehreek-e Taliban, compiere attentati commissionati dall’Isis o gestirli da sé per indebolire  i propri governi, quelli passati del clan Bhutto e pure quelli dell’ex premier para islamista Nawaz Sharif Insomma da parte pakistana gli attori sono molteplici.

Alle formazioni del radicalismo religioso deobandi che nell’ultimo ventennio hanno fomentato il caos e seminato panico fra la gente senza mostrare un disegno preciso se non quello di difendere la gestione delle enclavi nel Waziristan e nelle Aree tribali di amministrazione federale, si aggiungono le milizie dell’Isis Khorasan attive proprio a cavallo della Linea Durand, la frontiera inesistente. Secondo loro un retaggio dell’imperialismo occidentale che la inventò, un ostacolo alla stregua degli Stati-nazione che aborrono, mentre rivogliono l’unità del Pashtunistan esso stesso nient’altro che un tratto dell’agognato nuovo Califfato in via di creazione. Più orientale e asiatico di quello sperimentato fra Siria e Iraq, ma con ulteriori potenziali protagonisti: i popoli tajiko, uzbeko, kirghizo, oltre a beluchi, afghani, pakistani e quant’altri. Un sogno. Secondo alcuni un delirio. Eppure è un progetto in divenire perlomeno nella propaganda armata a suon di stragi che dal 2016 insanguinano le terre lungo la Linea Durand. Quest’ultima fra l’altro da un po’ di tempo viene sbarrata. Iniziò sempre Islamabad chiedendo ai frontalieri passaporti e visti per passaggi fra est e ovest anche quotidiani. Mentre proseguiva e s’ampliava una struttura divisoria fatta di mura e cancellate. In realtà più dissuasive che separative. Il muro non supera i due metri di altezza, può scavalcarlo anche un bambino, se però i militari, messi a vigilarlo sempre più numerosi, non aprono il fuoco sul trasgressore. Di solito si tratta di soldati pakistani, nessun afghano dei governi filo occidentali voleva ostacoli sul confine, né li vogliono i taliban. La provincia di Khost è tuttora priva di barriere, nell’Helmand sono stati distrutti diversi chilometri costruiti. Il rimpatrio forzato di oltre mezzo milione di migranti e rifugiati afghani dalle zone che per diversi decenni li hanno accolti, come la città di Peshawar dove tuttora insistono enormi campi profughi, pone la scottante questione della chiusura degli spazi di accesso come un tema molto sentito dagli strati più poveri. Son loro a vagare sulla Linea lavorando nei campi un po’ qui un po’ là. Per costoro non esistono governi e Stati, cercano di raggranellare poche rupie per sfamare la famiglia, seguono chi gli offre un lavoro qualsiasi. S’accontenterebbero di quello, ma se il varco si chiude possono seguire chi offre denaro per un altro lavoro: piazzar bombe. L’Isis-K l’ha capito e provvede. Accanto a un reclutamento ideologico, ne attua uno mercenario. Pagare per uccidere. Uccidere per destabilizzare. Mentre il mondo dai falsi confini che cerca di chiudersi, a Oriente e Occidente, offre nuove leve a contraddizioni che si perpetuano.

Di Enrico Campofreda

Giornalista. Ha scritto per Paese Sera, Il Messaggero, Corriere della Sera, Il Giornale, La Gazzetta dello Sport, Il Corriere dello Sport, Il Manifesto, Terra. Attualmente scrive di politica mediorientale per il mensile Confronti, per alcuni quotidiani online e sul blog http://enricocampofreda.blogspot.it/ Publicazioni: • L’urlo e il sorriso, 2007 • Hépou moi, 2010 • Diario di una primavera incompiuta, 2012 • Afghanistan fuori dall’Afghanistan, 2013 • Leggeri e pungenti, 2017 • Bitume, 2020 • Corazón andino, 2020 • Il ragazzo dai sali d’argento, 2021 • Pane, olio, vino e sale, 2022

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