Al teatro Strehler di Milano è andato in scena Zio Vania, la grande opera del drammaturgo russo Čechov

Che delizia questo Zio Vania per la regia di Leonardo Lidi che abbiamo visto di recente  in scena al Teatro Strehler di Milano (a distanza di qualche mese dal suo debutto al Carignano di Torino), secondo capitolo di una trilogia delle opere del drammaturgo russo Anton Pavlovič Čechov iniziata lo scorso anno con “Il Gabbiano” e che si concluderà nella prossima stagione con “Il giardino dei ciliegi”. Un Čechov dove si ride, un Čechov che si è lasciato definitivamente alle spalle le vecchie letture novecentesche, intrise di atmosfere di indefinita tristezza che nella tradizione ne ha accompagnato la gran parte delle regie. Del resto, è noto ,quanto Čechov non amasse la definizione di “dramma” data alle sue opere. Čechov amava il vaudeville e la regia di Lidi lo asseconda, non teme di far emergere il grottesco delle scene, ma anche  lo sguardo di indulgenza di Čechov su tutte le  nostre debolezze umane, le nostre velleità mediocrità. Le conosce e le perdona (in  una lettera al fratello, Čechov scriveva che , il nostro è un destino ridicolo). Ma  intanto ce le mostra. E tanto vale ridere un po’. 

Lidi ambienta il suo “Zio Vanja” nel technicolor degli anni ’60 , gli attori indossano  abiti dai colori  sgargianti (creati da Aurora Damanti), tali da smarcare il testo dall’originaria collocazione cronologica (l’opera è stata scritta nel 1897).

Non c’è la dacia, il samovar, poltrone, finestre e pesanti tendaggi. La scena di Nicolas Bovey che cura anche le luci (repentinamente calde o fredde)  è costituita da  un unico ambiente, estremamente minimale: un alta  e imponente parete di assi di legno di betulla striato da venature chiare  e ombreggiature, a simboleggiare i segni del tempo. Una lunga panca, uno Scottish Terrier nero, che si aggira curioso, I primi, fulminanti istanti, sono sufficienti a rivelare l’originalità  della regia che attraverserà la pièce. Tutti i personaggi  giungono  sul palcoscenico sempre da dietro la grande parete e  vengono a sedersi in fila sulla  lunga panca  di legno, simbolo di un’immobilismo  esistenziale in cui vivono i personaggi  nella tenuta di Serebrjakov nella provincia russa. Come in attesa  di qualcosa, ma anche rassegnati a vedere scorrere   la vita che passa  davanti senza viverla pienamente. Dietro la parete, inaccessibili agli sguardi, si stagliano gli inciampi, i sogni, i desideri, velleità e passioni represse e, conseguenti abissi di infelicità 

Si  siedono sulla panca, spalle al muro, inchiodati alle travi di legno, alla rassegnazione di una vita privata dell’afflato vitale, passionale, e ripiegata sui rimpianti.
Poggia  la schiena, seduta sulla panca, l’anziana balia  Marina (Francesca Mazza), sguardo assente con i bigodini in testa, in vestaglia color fucsia, e la sigaretta fiacca tra le labbra. Vicino a lei, il dottor Astrov (un sorprendente Mario Pirrello),  con la sua prosopopea da simpatico sbruffone, con spossatezze alcoliche  (e lo dimostra il suo incedere quasi una rincorsa sospirata che poi si arresta, e frana)  che parla, parla, parla, appassionato difensori dei boschi e della natura che l’uomo “distrugge per noia e indolenza”. E poi c’è la paziente e laboriosa Sonja (Giuliana Vigogna) , figlia di primo letto di Serebrjakov che, insieme allo  zio Vanja, ha curato e amministrato, quotidianamente, per dieci anni la tenuta, innamorata in segreto di Astrov.  Vanja Ivan Vojnickij detto “Zio Vanja“(Massimiliano Speziani) arranca penosamente, strascicando a terra un piede dal quale a più riprese si sfila beffardamente la scarpa, prima di stramazzare al suolo:  già perdente, già annichilito da una banale ordinarietà. E infine la suocera del professore Marija (Angela Malfitano) sempre con un libro in mano, il piccolo proprietario terriero, ora in miseria Telegin (Domenico Agrusta). Il guardiano muto (Tino Rossi).

I personaggi ridono e sembrano piangere, siedono calmi e sembrano voler fuggire,e restano immobili e, scontenti, crogiolandosi nella noia e nel tormento per il tempo che passa. Dormono, mangiano, bevono, soffrono, ricordano. Il dramma interiore di ciascun personaggio è ,però  come dire, poco urlato, perché si consuma nel silenzio della noia e nella rassegnata consapevolezza dell’impossibilità di cambiamento, nel disincanto della loro impotenza esistenziale. A interrompere il tran tran delle giornate  è l’arrivo dell’ex cognato di Vania, Serebrjakov (Maurizio Cardillo) l’anziano professore  borioso e insulso, che scrive  saggi “senza capire assolutamente nulla in materia”,  venuto a occupare  la proprietà appartenuta alla sua prima moglie defunta  (sorella di Vania)  con la giovane e bella Elena Andreevna (Iaria Fantini) sposata in seconde nozze,  desiderata da tutti,  sempre controllata, anche durante l’apparente momento di abbandono cui si lascerà andare, con Astrov.
Dopo giorni di ozio inconcludente, amori non ricambiati, velleitari scoppi di rabbia, acide recriminazioni, verità lungamente eluse, la situazione degenera  quando il professore raduna tutta la famiglia per comunicare l’intenzione di vendere la tenuta. Vania avverte d’un tratto tutto il peso dei suoi quarantasette anni sprecati,  già annichilito da inutili desideri (straordinario quell’imbarazzo, colmo di umiliazione, che gli rabbuia il viso quando contempla, involontariamente, il bacio tra Astrov e la moglie di Serebrjakov) tenta di uccidere  l’ex cognato  una volta, e una volta ancora, sempre più goffamente, ,con colpi di pistola  che nel loro ridicolo rumore (”Bum Bum”) sdrammatizzano in gag ogni tensione. Disperato cerca il suicidio con una fiala di morfina trafugata dalla valigetta del medico. Poi tutto, tornerà come prima, quando si sentirà il tintinnio della carrozza, che ci avverte che Elena e Serebrijakov se ne sono andati  e  Vanja e la nipote Sonja si rimettono allo sfiancante lavoro di tutti i giorni.

Eppure, come accennavamo prima,  sotto la patina della vaudeville, Čechov  che da acuto drammaturgo conosce   bene  gli uomini e donne, non dimentica l’umanità che si cela in queste povere creature. Sì, certo,  prende in giro con ironia incomparabile il microcosmo inconsistente delle loro esistenze, ma  ne schiaffeggia con indulgenza mediocrità, e indolenze, e guarda  loro con affetto  quando si arrabattano senza trovare via d’uscita a quell’irriducibile slancio al desiderio, alla vita stessa che a tratti sobbalza in loro. Vorrebbero fare qualcosa per reagire alla propria insoddisfazione e in alcuni momenti sembrano anche riuscirci, ma poi ritornano al punto di partenza. Per questo, allora, come dice zio Vanja “Vanno bene anche i miraggi, quando la vita non ha più senso”.

“Dobbiamo continuare a vivere. Vivremo una lunga, lunga serie di giorni, di interminabili sere, sopporteremo pazientemente le prove che ci toccheranno. E poi riposeremo. Riposeremo, riposeremo!” , sospira Sonia. rassegnata. Il finale  di questo Zio Vania di Lidi è però secco, crudele, l’esistenza dei personaggi, si spegne  sulla parete bianca dii legno dentro il video gracchiante di un televisore che perde il segnale  e tanti puntini neri  e bianchi in movimento cominciano ad apparire..

Un Čechov scoppiettante ma non innocuo, In particolare oggi, nell’inerzia e nella rassegnazione in cui stiamo progressivamente precipitando. Forse succede anche a noi  avere la tentazione di smettere di lottare per il nostro desiderio, quello slancio vitale creativo, e di “accontentarci di vivere”.. Magari  le vite fotocopia di Instagram.

Di Cristina Tirinzoni

Giornalista professionista di lungo corso, ha cominciato a scrivere per testate femminili (Donna Moderna, Club 3, Effe, Donna in salute). E’ stata poi per lungo tempo redattore del mensile Vitality e del mensile Psychologies magazine e Cosmopolitan, occupandosi di attualità, cultura, psicologia. Ha pubblicato le raccolte di poesie Come un taglio nel paesaggio (Genesi editore, 2014) e Sia pure il tempo di un istante (Neos edizioni, 2010).

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