Al teatro Carcano di Milano è andato in Le serve scena il capolavoro di Genet, liberamente ispirato a un fatto di cronaca che scosse l’opinione pubblica francese negli anni Trenta
Teatro nel teatro. Per mettere subito in scena la messa in scena dei ruoli che si recitano nella vita, nel desiderio di essere altro da sé. Tutto inizia con la canzone dei Placebo Protect Me From What I Want (proteggimi da ciò che voglio ) che si ascolta mentre le due attrici, entrate in scena, ma ancora fuori dalla pièce, dopo aver salutato il pubblico in sala, iniziano a spogliarsi dei loro abiti normali, quelli di Beatrice e Matilde, per vestire quelli di Claire e Solange, le due serve. Su un palco ingombro di casse nere chiuse, che diventeranno poi basi per un grande letto e schiudendosi, armadi pieni di vestiti, con la musica di John Cascone, artista visivo e sonoro, e il suggestivo disegno luci (che sottolinea l’aspetto allucinatorio della pièce ) del giovane talentuoso Thèo Longuemare nella medesima tonalità bluette come le lenzuola e come le divise delle serve (i costumi sono di Erika Carretta) e il tailleur pantalone di taglio maschile di Madame.
Così, di sorpresa, è ritornato in scena (al teatro Carcano di Milano) Le serve ispirata da un episodio di cronaca nera autentico, il primo testo teatrale scritto da Jean Genet, nel 1946, una delle figure più trasgressive e provocatorie della letteratura del Novecento. “Santo Genet, commediante e martire”, il titolo della biografia che gli dedica Jean Paul Sartre. Un ribelle della rassegnazione, nato da padre ignoto, abbandonato dalla madre, sempre dalla parte dei diseredati, degli ultimi, derubava i ricchi omosessuali con cui si prostituiva, ma uno dei suoi grandi amori era un funambolo semianalfabeta Abdallah. L’autore di Querelle de Brest, il marinaio segreto oggetto di desiderio del suo capitano (Ogni uomo uccide la cosa che ama canta Jeanne Moreau nel film maledetto di Rainer Werner Fassbinder). Ha scritto i suoi romanzi imprigionato nelle carceri francesi ,una implacabile denuncia delle rassicuranti oppressive prigioni di regole e di convenzioni e dogmi (la patria, la chiesa, i rapporti di forza, il gioco del potere) che seducono e imprigionano. come una ragnatela la società in cui viviamo.
Le serve, dunque. Racconta un singolare triangolo, dove Madame, la padrona (che incarna la bellezza, il potere, il successo) irraggiungibile oggetto del desiderio, amata, ammirata, che le seduca (“Che cosa non ho fatto per voi”. ” Sono servita dalle domestiche più fedeli). E al tempo stesso, invidiata, disprezzata e odiata da parte di Solange e Clare, le due cameriere sorelle al suo servizio. Ma anche tra le due sorelle c’è una corrente di possesso e tensione erotica. Come amano e odiano la Signora, si amano e odiano tra loro. Tre donne per una perfetta macchina teatrale in un inquietante gioco delle parti. In cui reale e irreale si confondono. In un continuo ribaltamento fra essere e apparire. Facendone scrittura surrealista, realismo dell’inconscio. Loro, le serve, la chiamano “la cerimonia”. Ogni sera, quando la signora non c’è, nella sua camera da letto, Solange e Claire allestiscono un ossessivo teatrino, ,in cui a turno una prende le sembianze di Madame, l’altra quelle della serva-sorella, indossandone gli abiti da vamp, calze autoreggenti e gioielli, imitando i suoi atteggiamenti.
Ogni sera l’omicidio della Signora verrà simulato. Puntualmente sempre interrotto “quando suona la sveglia che segnala l’arrivo della Padrona”. Perché ciò che si mette in scena è il desiderio di essere la Padrona, non di annientarla. Un groviglio di sdoppiamenti e rispecchiamenti multipli che inevitabilmente rinvia uno specchio: un desiderio di sé, di essere altro da sé. Il desiderio che che spesso ha a che fare con l’invidia e l’identificazione impossibile, il non potere avere o essere ciò che si desidera. La stessa Madame è probabilmente una proiezione della loro mente. Ancora Sartre ne diede questa interpretazione. “Ognuna delle due cameriere non ha altra funzione che di essere l’altra, di essere, per l’altra, se stessa come altra”.
“Saremo libere?”, la terza didascalia compare, con l’interrogativo). Ora rischiano di essere scoperte, tutto sembra crollare. Terrorizzate dall’idea che l’amante di Madame da loro denunciato con lettere anonime sarà presto rilasciato e che la verità sarà scoperta, le serve tentano, come estrema soluzione, di avvelenare la padrona con una tazza di tisana che Madame, nella sua svagata disattenzione, non berrà. Sarà invece Claire, ad ingerire la bevanda avvelenata offertale dalla sorella carnefice mentre Solange aspetta il suo destino prossimo di reclusione. “Abbiamo perso la partita”, dice Claire. Claire e Solange, rimango prigioniere del loro irraggiungibile desiderio di essere altro. Per loro non c’è che una libertà, quella della morte .Unico modo per liberarsi di un’ossessione che le imprigiona entrambe, in cui le vittime sognano di essere proprio quei carnefici che le condannano.
Sul palcoscenico Eva Robbins, icona pop del transgender, davvero brava nel suo agitarsi, melodrammatico volutamente sopra le righe, irresistibile femme fatale nel ruolo di Madame, una sorta di diva d’altri tempi, bello quel tailleur pantalone che ricorda quelli di Marlene Dietrich. Le due “serve” Matilde Vigna (Solange), Beatrice Vecchione (Claire) vera rivelazione di questo spettacolo, grintose e versatili tengono la scena con vulcanica presenza dall’inizio alla fine, in una giostra di rimpalli e cambi di ruolo tra vittima e carnefice., rivelando una palpabile complicità attoriale e personale (sono cresciute insieme alla Scuola dello Stabile di Torino). “Noi entriamo in scena da attrici. L’attrice che riveste il ruolo della serva, che riveste il ruolo della padrona… Quanti ruoli viviamo? Di quanti volti ci vestiamo? E una volta tolti quelli, cosa resta? Dove cercare quest’essenza profonda? É un discorso complesso… Noi ci facciamo continuamente domande, e sicuramente anche il pubblico lo fa insieme a noi”, hanno dichiarato.
La regia di Veronica Cruciani ha lavorato su un testo feroce, distillandone anche l’ironia (tagliente) che a volte strappa più di una risata beffarda al pubblico, anche attraverso la nuova brillante traduzione di Monica Capuani Le serve sembra raccontare perfettamente la nostra società. nel neocapitalismo del ventunesimo secolo. Oggi, come ieri, abbiamo bisogno di idoli da amare: li gonfiamo, li fagocitiamo dentro noi, poi li distruggiamo. Sui social. La vetrina social di presunti trionfi altrui annichilisce e genera una rabbia che molti non sanno più gestire. Pensiamo agli influencer (ci viene in mente un nome ma non lo faremo!). Amati e odiati. Eppure se non ci fossero i follower, non ci sarebbero gli influencer, e viceversa se non ci fossero gli influencer, non esisterebbero neanche i follower. E proprio come nelle serve, le ineguaglianze l’invidia sociale, il desiderio di essere altro rischiano di mescolarsi in una vertigine perturbante di cui si perde il controllo. . A volte un gioco delle parti mortifero.