Al teatro Franco Parenti di Milano la nuova proposta di uno spettacolo tratto dal celebre capolavoro del grande regista svedese Bergman
La vita dei sentimenti è così complicata, aggrovigliata, che a volte solo attraverso la finzione scenica del teatro si riesce a vedere come in uno specchio riflettente tutto quello che nella vita quotidiana non si riesce a vedere perché fa troppo male o proprio non vogliamo o riusciamo a vedere. Così è stato andando a vedere al teatro Franco Parenti di Milano la nuova proposta di Scene da un matrimonio, tratto dal celebre capolavoro del grande regista svedese Ingmar Bergman (realizzato nel 1973 da prima come serie tv e poi come film) riportato meritoriamente in scena – con maturità e sensibilità registica – da Rapahel Tobia Vogel (già laureato studioso di geometrie affettive con Costellazioni, una storia d’amore tra due personaggi nella cornice della fisica quantistica e del metaverso) nell’adattamento teatrale di Alessandro D’Alatri, con debutto nella sala grande del teatro Franco Parenti (il regista, classe 1987, vi accede per la prima volta, come ha segnalato con un certo orgoglio la madre Andrée Ruth Shammah).
Un testo che a distanza di 50 anni conserva tutto il fascino di una materia incandescente e deteriorabile come l’amore e le dinamiche del rapporto di coppia. E la sua evoluzione nel tempo. E spalanca a interrogazioni ancora attuali: sulla incapacità, impossibilità di conoscersi, sulle parole non dette e che potrebbero avvicinare, sulle maschere che si indossano, con e senza consapevolezza, sui sensi di colpa, sul desiderio e sulla violenza fisica. Pur seguendo con fedeltà la traccia originaria, la regia di Vogel sente l’urgenza di mettere in rilievo punti determinanti che possano prestarsi meglio di altri ad interpretazioni e letture del nostro presente ancora così accidentato sul fronte dei sentimenti. E aggiunge qualcosa di nuovo sui cui propone di riflettere. “La guerra che scaturisce fra Giovanni e Marianna -, dice Vogel -, è in realtà una guerra contro loro stessi. E’ l’anatomia di una una crisi di coppia che si trasforma nei confronti con l’ altro in un processo di autosvelamento per giungere almeno ad essere consapevoli delle maschere sociali e oggi aggiungiamo anche quelle social che si indossano più o meno consapevolmente, e che impediscono un vero incontro con l’altro”. “Sempre finta. Sempre. Finta nei miei rapporti con le altre persone.. Ma poi cominci a chiederti se vivi per essere te stessa o per essere quello che gli altri pensano e si aspettano da te . Ed sorprendente: io non so chi sono. Non ne ho la pallida idea”, confesserà a un certo punto Marianna. “Siamo sconnessi da noi stessi e non possiamo capire noi stessi”, urlerà sgomento anche Giovanni..
Giovanni, 42enne, professore universitario di psicologia, e Marianna 35enne, avvocato divorzista, sono sposati da dieci anni, hanno due belle bambine, vivono un rapporto che apparentemente funziona come risulta dalle risposte che danno alla giornalista, durante un’intervista, seduti su un divano di casa. In realtà, il matrimonio è segnato da crepe che sono diventate voragini. nel corso degli anni (dieci), minato da insoddisfazioni, rabbia, risentimento, e tensioni accumulati. Il matrimonio di Giovanni e Marianna è una messinscena, una recita a soggetto tra due complici a beneficio di terzi – genitori, colleghi, amici – ma prima ancora di se stessi. La regia di Vogel lo evidenzia anche in dettagli scenografici attraverso cui ribadisce che siamo di fronte a un palcoscenico allestito ad arte: con l’arrivo in scena dei tecnici a spostare mobili, ad aiutare i protagonisti nei cambi d’abito (sette, oltre ai pigiami, disegnati da Nicoletta Ceccoli). Giovanni e Marianna fingono, recitano. Anche con se stessi. Parlano incessantemente, senza mai veramente comunicare e comunicarsi. Una incomunicabilità resa anche dalla scena divisa in due: a sinistra c’è il soggiorno con divano al centro; a destra la camera con il grande letto, divisi da una parete che nei loro spostamenti da un ambiente all’altro non permette il transitare della parola (scenografia di Nicolas Bovey) Come un’ ombra inquietante, sulla parete della camera da letto comincia ad aprirsi una simbolica crepa bianca, creata dalle luci, la crepa appare e scompare (il disegno luci è di Oscar Frosio). Sul fondale sono proiettati i titoli dei sei capitoli, sei round di una coppia sul ring di combattimento. Innocenza e panico. L’arte di nascondere la spazzatura sotto il tappeto. Il letto di chiodi. Paola, la Valle di lacrime, Gli analfabeti. Nel pieno della notte in una casa buia in qualche parte del mondo.
Dopo aver nascosto “la spazzatura” sotto il tappeto ,dopo un accumulo seriale di bugie, silenzi, omissioni, la crisi scoppia ufficialmente quando Giovanni, confessa piangendo e sensi di colpa (come gli uomini spesso fanno) di essersi innamorato di un’altra donna, una studentessa ventitreenne, di nome Paola, che gi ha insegnato a “urlare e litigare”, e a fare sesso come più non faceva con lei e di volersene andare. Eccole, le verità urlate in faccia. “Sai da quanto tempo penso di andarmene? Lasciare te, le bambine, la casa, da molto tempo prima ancora di incontrare Paola”. Uno tsunami emotivo che Marianna incredula, ancora innamorata, cerca di arginate e respingere.. Con gesti anche comici, ma emblematici e non privi di tenerezza come quando riesce ad infilarsi, in preda alla disperazione, nella valigia di Giovanni che sta per andarsene. Cambia anche la casa, testimone di un’agonia sentimentale. Arredata con cura e ordine, piena di mobili, la stanza va spogliandosi e disfacendosi giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno.
C’è un realismo brutale e umanissimo nella rappresentazione di come due persone riescano ad amarsi e ad odiarsi allo stesso tempo .Giovanni e Marianna, si lacerano, si picchiano, si sbranano. In una resa dei conti feroce. Volano insulti e parolacce,. corpi avvinghiati e poi abbandonati a terra, colpiti. C’è incredulità, sbigottimento. “Dov’è che abbiamo sbagliato. Quando è andato tutto storto? Che cosa è successo all’ amore”, chiede e si chiede Marianna. C’è il dolore, la sofferenza da parte di entrambi, ognuno ferito a proprio modo e ognuno a sua volta feritore, in un doppio sfogo emotivo così vibrante che il pubblico difficilmente può prendere posizione per l’uno o per l’altra, cercando invece di capire le ragioni, la sofferenza, le paure di entrambi e in cui ci si riconosce. E questo grazie anche alla regia di Vogel che sceglie di raccontare senza giudicare, anzi sembra guardare i protagonisti con estrema dolcezza. Facendo proprio quello che Bergman fa dire a un certo punto a Giovanni, nella scena intitolata Gli analfabeti dei sentimenti. “Ci insegnano la geometria, la geografia, la vita dei pesci negli oceani, non ci dicono assolutamente nulla su come siamo fatti dentro”.
Anche i dialoghi all’inizio reticenti poi sempre più ruvidi, sinceri, senza misericordia, crudi e brutali, sono anche pervasi da un’ironia diffusa, talora scoperta, a volte impalpabile (che in Bergman non c’è’ quasi mai) un po’ alla Woody Allen. “La solitudine con Paola è peggio della vera solitudine”, buttata lì con tono canzonatorio da Giovanni, evidenziata da un’espressiva gestualità ricca di sottintesi da un lodevole Fausto Cabra, che ha saputo rendere efficacemente la complessità del personaggio di Giovanni: narcisista, bugiardo, sentimentale, addolorato, rabbioso, crudele. Fragile e infine oppresso da un senso di fallimento. E trova registri perfetti per esprimere il difficile attraversamento di una geografia emozionale labirintica, il desiderio di fuga e la nostalgia di casa, con al centro quell’ “amore mio” che ripete ossessivamente ,come ad aggrapparsi a una scialuppa di salvataggio, per tutto lo spettacolo dall’inizio alla fine, anche nei suoi momenti più tesi.
Sara Lazzaro ha incantato il pubblico aggiungendo strati di profondità al personaggio di Marianna, nelle sue paure, i suoi dubbi, con l’amarezza e con il rimpianto, attraverso variazioni della postura e della intonazione di voce: da tenera ed insicura moglie nella cui voce trema sempre una nota di pianto represso o sorriso forzato delle prime scene (con un controllo che fa immaginare sentimenti repressi), nello spaesamento degli occhi davanti all’abbandono, ha saputo conferire poi accenti taglienti, che trasudano una nuova sicurezza, e una nuova consapevolezza alla Marianne delle ultime scene. Diventata con dolore una donna nuova: ,libera, consapevole, ma anche conscia di un legame impossibile da recidere.
Nonostante le ferite inferte, l’uno all’altra, gli anni di separazione, il divorzio ed i nuovi matrimoni, nella scena finale ritroviamo Giovanni e Marianna teneramente abbracciati, mentre un soffio di tramontana fa mulinare fiocchi di neve come coriandoli “in piena notte in una casa buia in qualche parte del mondo. Pronti ad augurarsi “buonanotte, amore”. Un happy end romantico. Forse soltanto sognato? Il sogno di un sogno d’amore senza fine che ripari dalle tempeste della vita? Poco importa. Resta invece aperta, anzi spalancata, la domanda che ci riguarda tutti. Cos’è l’amore? Ah saperlo, ah saperlo!