L’opera del compianto Ruccello che racconta l’epopea della caduta del Regno delle Due Sicilie e la nascita del Regno d’Italia
Tornano nei teatri due opere di Annibale Ruccello, drammaturgo, attore e regista, considerato il più promettente autore del teatro napoletano (dopo Edoardo de Filippo) morto prematuramente a soli trent’anni in un tragico incidente automobilistico sulla Roma Napoli nel 1986. Ma il suo teatro è ancora vivo. Arguto e inclemente. E ogni volta che abbiamo a che fare con le sue pieces continua a sorprenderci. Lo dimostrano i due rimarchevoli allestimenti di Le cinque rose per Jennifer andato in scena al Teatro Elfo di Milano per la regia di Gabriele Russo e Ferdinando (al Teatro Carcano) per la regia di Arturo Cirillo, prima di continuare le tournée in altre città italiane. Ricordare o scoprire) Annibale Ruccello è in qualche modo doveroso. Per la gioia spettacolare di vedere un teatro colto che mescola il kitsck con il noir la farsa più feroce. Riferimenti colti e citazioni popolari. Per la piacevolezza della sua originalissima scrittura che mescola l’italiano con il dialetto napoletano, creando quella lingua “scassata” (proprio cosi la definisce Ruccello in una intervista), capace di mostrare -con ironia e talvolta spietata crudezza un elemento tragico, perturbante che si nasconde nelle sue storie e ne i suoi personaggi.
In Ferdinando, unanimemente considerato dalla critica il capolavoro di Ruccello, un po’ farsa, un po’ dramma, la Napoli del 1870 è lo sfondo storico della storia. Il Regno delle Due Sicilie è appena caduto con la nascita del regno di Italia. Proprio come il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, anche Ferdinando si apre con la recita del Rosario in latino nell’ora del Vespro. “E n’avimmo fatta n’ata, comme dicette chillo ca vuttaje abbascio ‘a mugliera”, è la prima battuta di Donna Clotilde: baronessa nell’ex Regno delle Due Sicilie che giace nel grande letto che troneggia al centro della scena (inclinata per una perfetta visione, frontale). Dopo la morte del marito. si finge malata e passa le giornate a letto fra rosari e medicine e comunica solo nel dialetto napoletano,da lei ritenuta l’unica lingua nobile degna di considerazione,, detesta la nuova società piccolo borghese che si va affermando, il re sabaudo e la lingua italiana “na ‘lenga e mmerda”. (ed è subito accolto dal pubblico in sala con risate). Ad assisterla Gesualda, la cugina povera, figlia della colpa, perché la madre non era sposata e per questo motivo disprezzata, e che le fa da serva.
A scandire il loro tempo, immobile e noioso, sono le visite del parroco del luogo don Catellino, uomo mellifluo e sporcaccione (si scoprirà avere una relazione con Gesualda e con il giovane sacrestano sospettato di rubare i soldi delle offerte lasciate in chiesa dai fedeli). Tutto sembra immobile, un tran tram fatto di meschinità condivise, livori più o meno sottaciuti e insofferenze più o meno striscianti, quando l’arrivo improvviso di un misterioso lontano nipote della baronessa, di cui si igorava l’esistenza, Ferdinando bello e strisciante getta scompiglio nelle loro vite, facendo esplodere un tourbillon di gelosie e risentimenti, desideri nascosti di fresca carnalità, le finzioni, scomode verità, fino a svelare la vera natura dei personaggi, strappando via le maschere indossate. Commedia che diventa dramma crudele e noir (ci scappa anche in morto). Ma chi è davvero l’efebico Ferdinando? Qui ci fermiamo per non togliere agli spettatori la curiiosità di scorprlo a teatro.
Straordinario il quartetto di attori: dal giovane Riccardo Ciccarelli nei panni di Ferdinando (da segnalare una scena di nudo posteriore), il regista Arturo Cirillo che interpreta l’ambiguio Don Catellino, Anna Rita Vitolo che rende con finezza il temperamento orgoglioso di Gesualda, sottomessa ma desiderosa di vendetta fino a Sabrina Scuccimarra, attrice di razza, la cui bravura interpretativa rende commprensibile un napoletano magmatico e viscerale (unica non napoletana, il dialetto l’ha dovuto imparare). “Gesualdì!… Gesualdì!… – dice, scoppiando a ridere, Clotilde alla fine – Ce pienze… Nun se chiamava manco Ferdinando!”. Oltre l’inganno, svelato dallo stesso Ferdinando con indosso vesti d’arcangelo con tanto d’alucce sul dorso, la beffa:, il falso nipote non si chiama neppure Ferdinando, come il re Borbone, bensì Emanuele Filiberto, come un Savoia.